È di lui che vorrei parlarvi. Della sua centralità nella vita di tanta gente come me, di come ha contribuito a cambiarcela, ma anche di come è riuscito ad avvelenarla ben benino. Perché occorre esserne consapevoli, quando ti entra dentro non ti lascia più in pace». Chi è capace di tanto è Marcel Proust. È di lui che ci parla Alessandro Piperno (scrittore e docente di letteratura francese presso l’Università di Roma Tor Vergata) nel recente Proust senza tempo, un libro in due parti, di cui la prima s’intitola Breve storia di una lunga fedeltà: una storia che ha inizio quando Piperno ha diciassette anni (ora ne ha cinquanta), e un compagno di liceo, per Natale, gli regala il primo volume della Recherche tradotto da Giovanni Raboni per i Meridiani Mondadori.
A conquistare il giovane lettore è la particolare natura dell’io narrante: «era il contrario dell’uomo d’azione», e «aveva un modo tutto suo – un modo davvero elegante – di esercitare la nobile arte dell’autodenigrazione» (arte in cui Piperno si esercita nel capitolo intitolato Siamo tutti Madame Verdurin). Ma «come poteva un’opera tanto intima […] scatenare in me una così bizzarra identificazione?» È una domanda alla quale Piperno non ha ancora saputo dare una risposta, ragion per cui non gli resta che «chiamare in causa lo stile» della prosa proustiana: una prosa dal fraseggio «lento, suadente, lussureggiante», una prosa «ricca, complessa, accattivante, da gustare rigorosamente col pensiero, perché se provi a sillabarla», accentuatamente ipotattica com’è, «ti toglie il fiato».
Ma chi era Marcel Proust? Secondo Piperno, se l’autore della Recherche invita a distinguere nettamente l’opera dalla vita, non lo fa per ragioni artistiche, ma per «tenere i ficcanaso a debita distanza dagli affari suoi […] Non era fiero di sé. Tutto qui». Pur deplorando la curiosità morbosa che spinge taluni lettori e studiosi a rovistare nella biografia dello scrittore, e ribadendo che non è lecito «sovrapporre in modo pedissequo Narratore e Autore», Piperno disapprova «l’atteggiamento di chi, per snobismo o partito preso (è il caso di Nabokov e di Barthes) ostenta per la vita di Marcel una schizzinosa indifferenza».
La diffusione del «mito Proust» (quello «che si compiace di dividere in due la vita di Marcel: da una lato gli anni giovanili, distinti da mondanità e dissipazione; dall’altro gli anni della maturità, consacrati a silenzio, tenebre, dinieghi e lavoro») fu peraltro opera, in parte, dello stesso Proust (si considerino, ad esempio, «le lunghe anticamere cui, segregato nella sua stanza, costringeva i visitatori che venivano a omaggiarlo il pomeriggio inoltrato»). Insomma, è stato Proust per primo a creare «una simbiosi tanto losca quanto inossidabile tra arte e biografia».
Oggi, considerando «il proliferare degli studi multiculturali e di genere», Piperno teme che la Recherche venga giudicata «un’opera pericolosa, se non addirittura immonda», e che il trionfo delle «anime belle» (incapaci di comprendere come «lo sguardo lucido e disincantato» dello scrittore ne faccia, al contrario, «un’opera di moralità inflessibile») possa cancellarla dai programmi universitari, contribuendo così a ridurre gli studi umanistici a «succursale dell’impegno civile». Qui devo fermarmi, tacendo fra l’altro l’identikit che Piperno disegna del proustiano perfetto (idolatra, snob, sentimentale), e un elemento, «l’idea di morte», che col trascorrere del tempo è venuto ad aggiungersi al processo di identificazione con l’autore prediletto. Devo fermarmi per dire che la seconda parte del libro è composta da sette brevi saggi, in cui Piperno tratta delle affinità e delle differenze evidenziabili tra Proust e sette scrittori eminenti: Montaigne, Céline, Nabokov, Balzac, Dante, Virginia Woolf, Philip Roth.
Mi limiterò a elencare molto succintamente alcune delle affinità più o meno manifeste tra Proust e Dante. Come scrive Gianfranco Contini, nell’io dantesco (la prima persona singolare usata dal poeta) convergono «l’uomo in generale» e «l’individuo storico», «l’Io trascendentale» e «l’io esistenziale»; lo stesso si può dire dell’io proustiano. A questi due narratori, dice Piperno, si deve aggiungere una terza figura: quella che fa della Recherche un’opera sapienziale. Sia Dante che Proust possono dirsi fondatori di due religioni letterarie: «leggerli è al tempo stesso un piacere, una fatica e un atto devozionale». Sia il Poeta che il Narratore si prefiggono «di intraprendere un iter di salvezza». Swann è il Virgilio di Proust. La «selva oscura» in cui si aggira il Poeta smarrito è in qualche misura assimilabile alla camera dove giace tra veglia e sonno il Narratore, nelle pagine iniziali della Recherche. Scrive Osip Mandel’štam: «l’intero poema dantesco è un’intera strofa, unica e indivisibile». Secondo Piperno, «anche la Recherche si configura come un’unica incessante frase». Sia Dante che Proust utilizzano la letteratura per vendicarsi: si veda ad esempio come infieriscono su Filippo Argenti e Monsieur d’Argencourt.