Carlo Porta, un’eredità che non muore

Si compiono duecento anni dalla scomparsa del poeta milanese
/ 11.01.2021
di Federica Alziati

«L’è ona brutta giornada scura scura, / El pioeuv a la roversa, el tira vent», scriveva il poeta milanese Tommaso Grossi, dando inizio al suo componimento In morte di Carlo Porta, omaggio commosso all’amico fraterno, prematuramente scomparso il 5 gennaio del 1821: «Pover Porta! […] / scior, gioven, disinvolt, pien de talent, / ben veduu al mond de tutt i galantomen, / stimaa de tutta la pu brava gent» (vv. 19-22). Difficile immaginare un ritratto altrettanto fedele del più grande autore meneghino, che riservò il meglio della propria intelligenza e sensibilità all’intima cerchia dei suoi amici e sodali, e consacrò un talento poetico fuori del comune a ritrarre la realtà umana della sua città, ancora pressoché racchiusa tra la contrada del Monte (poi Monte Napoleone, all’epoca scevra di vetrine abbaglianti) e via Brera, tra il Duomo, il Broletto e la piazza dei Mercanti.

Abitavano o gravitavano tutti lì, in quel gomitolo di strade, gli intellettuali e poeti che si radunavano a cadenza regolare nella celebre «Cameretta» di casa Porta, al Monte: Tommaso Grossi, appunto, ma anche Giovanni Torti, Gaetano Cattaneo, Luigi Rossari e poi Ermes Visconti, confidente di Alessandro Manzoni, quest’ultimo domiciliato poco lontano, in una palazzina di via del Morone. Dapprima l’appuntamento fisso era per la domenica, ma dal 1817 ci si ritrovò ogni mercoledì e sabato, a legger versi e commentare scritti e fatti; a immaginare un futuro diverso, all’indomani della Restaurazione, per Milano e per l’Italia, per la letteratura, i letterati e il pubblico dei lettori. Non si può comprendere la rivoluzione letteraria del Romanticismo italiano senza guardare all’epicentro della scena milanese – dai fascicoli della rivista «Il Conciliatore» alle opere di Manzoni; e non si può capire l’esperienza milanese senza sforzarsi di penetrare nel vivo del dibattito che animava la Cameretta, senza provare ad assaporare l’ispirazione sincera e il realismo minuto delle poesie dialettali del Porta.

Lasciando al figlio Giuseppe una raccolta autografa dei propri versi, l’autore confidava di aver voluto «provare se il dialetto nostro poteva esso pure far mostra di alcune di quelle veneri, che furono fin or credute intangibile patrimonio di linguaggi più generali ed accetti» (si cita, qui e oltre, dall’edizione integrale delle Poesie procurata da Dante Isella). Ma l’eredità poetica di Carlo Porta non si limitava a dimostrare l’efficacia espressiva del vernacolo milanese: sfruttando l’immediatezza della parlata dialettale mostrava piuttosto alla letteratura tutta – locale o nazionale, in lingua o vernacolare – la possibilità, o meglio la necessità di scrollarsi di dosso i retaggi del classicismo, per mettere in risalto ogni espressione dell’esistenza e dar voce alle diverse figure umane di cui sono popolate le strade di qualunque città.

La lenta, faticosa apparizione degli umili protagonisti dei Promessi sposi o della famiglia Malavoglia fanno seguito al debutto su una scena di prestigio dei personaggi portiani, eredi nobilitati di una tradizione comico-realistica per secoli giudicata «minore»: Meneghin, «poetta» improvvisato al tavolo dell’osteria; lo sfortunato Giovannin Bongee, sempre intento a sviscerare le proprie Desgrazzi, e a illudersi di ottenere prima o poi dalla forza pubblica «la giusta giustizia ch’han de fann» (Olter desgrazzi, v. 346); la Ninetta del Verzee, che rivela con disinvoltura la propria tragedia di donna traviata; il povero Marchionn di gamb avert, col suo Lament per le pene d’amore inflittegli dalla Tetton; e persino l’aristocratica Donna Fabia Fabron de Fabrian, che eleva giaculatorie miste di italiano e dialetto, convinta com’è «che sia prossima assai la fin del mond, / chè vedo cose d’una tal natura, / d’una natura tal, che non ponn dars / che in un mondo assai prossim a disfas» (Offerta a Dio, vv. 9-12).

 Se nella scorrevolezza delle sestine o delle ottave dei poemetti guadagna per lo più spazio e mordente la testimonianza diretta dei caratteri d’invenzione, non mancano d’altro canto le occasioni in cui il poeta si concede la prima persona, intervenendo con consapevolezza e ironia nel vivo del dibattito letterario e dimostrando che «Carlo Porta poetta Ambrosian / […] el gh’ha minga el coo balzan» (sonetto 48, vv. 1-4). È il caso dei pungenti sonetti contro il classicista Pietro Giordani, del ritratto delle Muse come «on mucc de sabett vuna pù veggia / de l’oltra» che figura nei versi Per el matrimoni del sur Cont Don Gabriell Verr (72-73), o delle lucide teorizzazioni del Romanticismo, in cui si denuncia a gran voce come per mezzo delle regole canoniche «se streng, se imbruga l’imaginazion, / e el camp de la natura inscì spazios / el va tutt a fornì in d’on guss de nos» (vv. 184-186).

Fedele alla sua «Musa nostrana» e al suo «lenguagg s’cett e leal» (componimento 64, vv. 1-5), Carlo Porta non avrebbe mai smarrito il suo timbro onesto e un’umiltà di sguardo capace di posarsi sulle piccole e grandi miserie dell’esistenza quotidiana, sulle ingiustizie minime o eclatanti della società del suo e di ogni tempo. Con la stessa umiltà, avrebbe dato prova di non considerare la poesia un esercizio di vanità, bensì un impegno virtuoso: «Io non pretendo […] di esibirti un modello di poesia da dovere, o potere imitare», scrisse al figlio nel consegnargli i suoi versi, «pretendo bensì di esserti esempio in ciò, che fui nemico in ogni tempo dell’ozio e che ebbi dall’amor delle lettere […] additata una strada sicura per sottrarmi alle di lui insidie e fuggirlo». Con la medesima semplicità, al contempo sobria e colma d’affetto, lo avrebbe salutato per l’ultima volta Tommaso Grossi, chiudendo il ricordo dal quale abbiamo preso le mosse: «Basta, Carlo, on quai dì se vedaremm».