Quelle storie maledette

Ventiquattro anni, sedici stagioni, decine di interlocutori, e non sentirli, verrebbe da dire. Storie maledette, la trasmissione di Rai3 ideata, scritta e condotta da Franca Leosini che, come ci tiene a ribadire, ne è autrice unica, ritornerà in prima serata su Rai Tre domenica 11 marzo alle ore 21.20. A rispondere alle domande della giornalista, sotto i riflettori e davanti alle telecamere, ci saranno le protagoniste di uno dei casi più discussi e controversi della recente storia criminale d’Italia, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, in carcere a vita per avere ucciso Sarah Scazzi. Lo ricordiamo, per il delitto di Avetrana, avvenuto nell’agosto del 2010, ai danni della giovane Sarah (il ritrovamento del cui corpo fu annunciato in diretta durante una puntata di Chi l’ha visto, non mancando di suscitare polemiche accese, anche perché la madre di Sarah era in collegamento con la trasmissione) sono state condannate all’ergastolo la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano, nonché, per soppressione di cadavere e inquinamento di prove, lo zio Michele Misseri.

La preparazione di Franca Leosini per ogni singola puntata di Storie maledette è certosina ed estremamente accurata, e prevede anzitutto uno studio approfondito degli atti processuali (nel caso del delitto di Avetrana si parla di oltre 10’000 pagine), anche perché, come lei stessa ammette «Lo studio degli atti è indispensabile, poiché spesso è nei dettagli che si nasconde il senso profondo di una storia».

E sono molte le Storie raccontate da Franca Leosini che hanno rivelato il loro senso più profondo, portando alla luce aspetti della vicenda magari trascurati, e dando la possibilità al condannato di raccontare la propria dignità in uno spazio diverso e lontano da quello processuale. Per citarne una fra tutte, ricordiamo la puntata del 2016 in cui l’ivoriano Rudy Guede narrò la propria versione del delitto di Perugia in cui morì Meredith Kercher. Guede, condannato a 16 anni di carcere per concorso in omicidio (resta un mistero con chi sia avvenuto il concorso, vista e considerata l’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito) si presentò all’opinione pubblica in modo del tutto diverso da come questa l’aveva conosciuto: pronto a scontare la pena, ma anche deciso a iniziare una nuova vita, arricchita di una laurea a pieni voti e di una nuova consapevolezza.


Capire, dubitare, raccontare

Alla vigilia delle nuove, attesissime puntate di Storie maledette, la grande giornalista italiana Franca Leosini ci ha raccontato i retroscena e i possibili motivi di un successo che dura da oltre due decenni
/ 05.03.2018
di Simona Sala

Impeccabile nel suo apparire signorile, lo sguardo scrutatore, le palpebre eleganti... e poi quel sorriso, che per vie naturali e invisibili, trasmette un calore intelligente, indulgente e soprattutto inconfondibile. Franca Leosini è un’interlocutrice attenta, e ha fatto di questa sua qualità una professione. Mossa e spinta da sempre da un rigore giornalistico che, oltre a valerle molti premi, ha creato anche una vera e propria fidelizzazione da parte del pubblico, da ormai ventitré anni su Rai Tre conduce Storie maledette, programma da lei ideato e scritto.

La formula dell’incontro con i detenuti, a tu per tu in un’ambientazione ridotta all’osso, davanti allo sguardo esigente delle telecamere, invece che subire il contraccolpo degli anni e di una potenziale usura, si è rivelata vincente. Al punto che proprio negli ultimi anni Franca Leosini è diventata una testimonial trasversale con status di culto, regina su twitter, come ha confermato recentemente l’acclamata apparizione a Sanremo, e icona dei movimenti gay. Abbiamo incontrato la giornalista di origini napoletane nei giorni frenetici che precedono la messa in onda della nuova e attesissima puntata di Storie Maledette

Franca Leosini, quali sono i criteri con cui sceglie i protagonisti delle sue Storie maledette?
Mi devono innanzitutto interessare la tematica di una storia e il suo sviluppo, ma anche aspetti come lo svolgimento, l’origine, la natura dei suoi protagonisti e l’ambiente in cui la storia si è verificata. Non sono necessariamente interessata alle storie che hanno un’importante eco sui media. Uno dei fattori di massimo interesse è l’elemento di inquietudine presente in certe storie, il cosiddetto noir, il dubbio.

E umanamente come si prepara a incontrare le persone in carcere?
Innanzitutto con grande rispetto, perché io non solo rispetto loro, ma rispetto anche i loro errori – qualora li confessino – e rispetto i loro punti di vista. Studio il processo, non vado a processare le persone, vado a capire. Nello spot di lancio che è in onda, e di cui ho scritto i testi, dico: «capire, dubitare, raccontare». Questi sono i tre verbi, i tre momenti che io frequento: prima di tutto cerco di capire; poi dubito, e posso dubitare sia di una verità che le persone mi raccontano, sia di una verità processuale, che non è necessariamente la verità storica; infine racconto, e questo è il mio compito, ma lo faccio in una grande narrazione che scorre all’interno di un’intervista. Ed è una narrazione psicologica, giudiziaria, umana e ambientale, che per questo abbraccia un orizzonte vastissimo.

Come avviene poi l’incontro vero e proprio con la carcerata o il carcerato?
Li incontro solo una volta, e non do mai le domande in anticipo. Proprio recentemente, all’ultimo momento ho rinunciato a un’intervista perché il mio interlocutore (nonostante vi fossero i permessi del DAP – Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) mi ha detto che non avrebbe fatto l’intervista se non gli avessi anticipato le domande. La mia è una diretta differita, vi sono solo dei tagli in fase di montaggio, per eliminare le ripetizioni o gli spazi superflui. Incontro il mio interlocutore poco prima delle riprese al fine di stabilire un rapporto di empatia, anche perché per il detenuto sarebbe scioccante andare sotto le telecamere senza avermi incontrata prima. Le domande però posso farle una volta sola. Un’unica volta anticipai una domanda e fu ad Armando Lovaglio, il ragazzo della storia del nano di Termini da cui il regista Matteo Garrone ha tratto il film L’imbalsamatore. Durante il colloquio gli avevo chiesto come sarebbe potuta finire la storia secondo lui. Ripetei la domanda anche sotto le telecamere, ma alla fine dovetti tagliarla in montaggio, perché era recitata.

Nelle carceri che riscontri riceve?
I detenuti mi amano molto. Se noi donne abbiamo il sesto senso, loro hanno perfino il settimo: grazie alla loro grande sensibilità sanno se una persona si accosta a loro con rispetto, senza giudizio e senza pregiudizio. Questo mi gratifica molto.

Lei sospende dunque giudizio e pregiudizio riuscendo sempre a restare neutra?
Io posso anche non essere neutra, ma devo apparire neutra. Non sospendo il giudizio, ma non lo dichiaro. Io devo conoscere il processo dalla prima all’ultima parola perché i miei interlocutori non conoscono le mie domande e io non conosco le loro risposte. Se una risposta si discosta dagli atti processuali, io ho il dovere di rimettere i fatti nell’ambito di una verità processuale alla quale devo fare riferimento. Magari poi questa può venire superata, quindi do modo all’interlocutore di dire quello che ritiene di potere dire, assumendosi le proprie responsabilità. Dopo la messa in onda non rilascio interviste relative ai casi giudiziari dei quali mi sono occupata, perché il mio compito è quello di ripercorrere la storia, cercando di capire cosa abbia spinto una persona, da una normale quotidianità, all’orrore di un gesto che a quella persona non assomiglia. I miei interlocutori sono tutti non professionisti del crimine, sono persone come me e come lei che a un certo punto cadono nel vuoto di una maledetta storia.

È difficile o necessario prendere distanza dai casi al termine delle interviste?
Le storie mi attraversano: conservo rapporti con i tre quarti delle persone incontrate.

Ci sono delle storie che più di altre ancora oggi non la lasciano in pace?
Eccome, molte, ma non dirò quali... grazie al mio lavoro giornalistico però posso mettere in evidenza determinati punti deboli o le falle verificatesi nel corso del processo. Ma anche i magistrati sono uomini, e a volte si innamorano di una verità e quindi finiscono per cercare le prove di quella verità. Quello che mi chiedo spesso è come faccia a sopportare l’ergastolo chi si dichiara innocente, e forse lo è. Non finisco mai di stupirmi di fronte alla capacità di sopportazione dell’essere umano.

I dispiaceri e un certo senso della giustizia fanno dunque parte della sua esistenza...
Credo che fra le cose che mi appartengono con maggiore profondità vi siano l’umanità e l’umiltà. Forse è per questo che le persone affidano a me il loro destino e scendono con me nell’inferno del loro passato. Io mi accosto agli interlocutori senza vizio e senza pregiudizio, sperando di potere incidere nella loro vita. Al di là di incidere sulla storia in termini di salvezza e di soluzione altra rispetto al giudizio già pronunziato dalla magistratura, Storie Maledette permette all’interlocutore di restaurare la propria immagine. Forse ricorda il caso di Mary Patrizio, che alcuni anni or sono affogò il proprio bambino di cinque mesi nella vasca da bagno: io la intervistai in un ospedale psichiatrico, mostrando come all’epoca dei fatti fosse in preda a un esaurimento post partum. Ora Mary Patrizio è fuori e mi dice che l’atteggiamento della gente nei suoi confronti è cambiato completamente: pensi che soddisfazione per me! Questo è sufficiente per dire che il mio lavoro ha un senso.

È cambiata la sua visione del genere umano dopo tutti gli abissi che ha visitato?
Ho sempre pensato che in ogni petto batta un cuore di tenebra. Sono convinta che noi siamo soltanto più fortunati, siamo riusciti a silenziare i fantasmi e non abbiamo respirato demoni. Ma ognuno di noi può essere candidato a diventare protagonista di una maledetta storia.

Franca Leosini, il suo successo sembra crescere giorno dopo giorno, anche grazie ai social... cosa ne pensa suo marito?
Qualche tempo fa mi fece questa domanda per un’intervista Malcom Pagani del «Fatto Quotidiano»... Anzitutto diffido della parola successo, preferisco parlare di risultati, perché il successo ce l’hanno anche quelli del Grande Fratello! A Pagani risposi che per mio marito, che facessi Storie maledette o polpette, era la stessa cosa. Ma il mio era un atto d’amore: so che lui mi ama semplicemente perché sono Franca!