In questi giorni in cui la guerra è tornata tragicamente sul suolo europeo con l’immancabile corteggio pestilenziale di crimini e menzogne, una raccolta poetica ci offre l’esperienza di un soldato che fissò in nove poesie un percorso spirituale esemplare. Si tratta dei Canti anonimi «raccolti» dal poeta milanese Clemente Rebora (1885-1957), apparsi per le edizioni della rivista «Il Convegno» cento anni fa.
La guerra «sola igiene del mondo», secondo la follia interventista proclamata da Marinetti, aveva scaraventato Rebora nel girone infernale del Podgora, la famigerata montagna, conquistata dal Regio Esercito italiano, tra il 1915 e il ’16, dopo quindici mesi di sanguinosi attacchi frontali. Sul Calvario del Podgora furono sterminati più di diecimila soldati italiani, grazie all’assalto a ogni costo, organizzato dal generale Luigi Capello (che passò dalla rotta di Caporetto alla marcia su Roma, finendo condannato per la cospirazione contro Mussolini nel fallito attentato ordito da Tito Zaniboni nel ’25). Tra i tanti morti, due compagni di Rebora nella famosa rivista fiorentina «La Voce», lo scrittore triestino Scipio Slataper e il grande critico romagnolo Renato Serra.
L’esperienza al fronte capovolse il mondo di Rebora, vivo fra morituri e morti. «Comandante della compagnia (ossia di un branco cavernicolo)», immerso tra melma e sangue, Rebora vede morire compagni come il soldato della poesia Viatico, un tronco senza gambe, per il quale tre commilitoni sono stati uccisi nel tentativo di sottrarlo al fuoco nemico e di cui il poeta invoca la fine dell’agonia: «[…] nella demenza che non sa impazzire, / lasciaci in silenzio / grazie, fratello». Una poesia che precede gli Anonimi, «davanti alla quale – diceva il non dimenticato filologo-sacerdote Giovanni Pozzi – anche il fante Ungaretti rischia di apparire un intellettuale compiaciuto». La citazione viene dal commento (ed. Interlinea, pp. 264, € 28 ) che Gianni Mussini ha preparato per accompagnare il lettore a comprendere quelle metafore che Gianfranco Contini definì «arditissime», sviscerando temi morali, ricorrenze verbali, eredità poetiche.
Durante la guerra Rebora fu colpito e quasi sepolto vivo da un obice, vacillando sul baratro della follia. Scampato alle sindromi post-traumatiche, sopravvisse con il fardello del fallimento della relazione sentimentale con la pianista russa Lidia Natus, addolorata anche da un aborto terapeutico. Ma la sua vita spezzata mostra già nei Canti anonimi di essere un transito – qualcuno ha parlato di stazione purgatoriale – in confronto alla sua prima «voce», quella espressa nella raccolta Frammenti lirici (1913), che dichiarò d’aver scritto in odio alla poesia. Da buon lombardo in rivolta, si scelse come ascendenti Parini e Leopardi all’Ombra sempiterna di Dante. La sua esistenza era in «attesa», nell’imminenza di quella […] scelta tremenda: «Dire sì, dire no / A qualcosa che so», fissata in un frammento del ’14 e che il poeta mise in esergo proprio alla raccolta degli Anonimi.
Rebora, cresciuto in una famiglia laica e garibaldina, votata al culto della figura di Mazzini, aveva iniziato un cammino dell’anima che lo porterà nel ’29 alla conversione al cattolicesimo, nel ’31 alla salita al Calvario di Domodossola come novizio e nel ’36 all’ordinamento sacerdotale nella congregazione fondata da Antonio Rosmini. Come fissò Pier Paolo Pasolini: «Rebora trova proprio in ciò che lo preserva, Dio, ciò che lo obbliga a impegnarsi, la Chiesa». Nell’abbracciare la carità rosminiana, Rebora si era snudato del superfluo: emblematica la liberazione della propria biblioteca a uno straccivendolo. Cessa qualsiasi attività letteraria e vive tra le case rosminiane di Domodossola e Stresa, per ritrovare (solo in ubbidienza ai superiori) l’ultima voce nei Canti dell’infermità, sofferenza quotidiana in contrappasso alla salute del Belpaese alle soglie del boom economico.
La lontananza da tutte le vanità letterarie viene sostituita dall’opera morale del dialogo con la propria coscienza. Già nella prima poesia di questo canzoniere intimo, Non ardito perché ardente, Rebora scriveva: «fuggire lascio la fortuna / che inseguita dalla gente / ansimando si consuma». Preferisce sciogliere canti all’amata campagna che va dal piano al monte, quando partecipava felice alla vita proba del contadino, come nell’esemplare lirica Al tempo che la vita era inesplosa, dove trova immagini di umile epicità: «in aureola splendeva / l’astro della mensa, / il sol della polenta»; e fra le tante immagini non dimenticabili, una chiusa stupenda: «Mentre è bello il silenzio a te vicino».
Per chi è sensibile alla musica, commovente è il timbro in assonanze di Campana di Lombardia che infonde […] fiducia verso l’alto / Di guarir l’intimo pianto, / Se nel petto è melodia / Che domanda e che risponde, / Se in pannocchie di armonia / Risplendendo si trasfonde / Cuore a cuore / voce a voce – / Voce, voce che vai via / E non dài malinconia.
Il Finale di questo canzoniere distillato è consegnato alla lirica dall’immagine tesa, «insieme poesia d’amore e di speranza», come scrive Mussini, «nella prospettiva possibile di un oltre che si rivela pudicamente in un bisbiglio», la voce di Dio, il MA che attende l’uomo Clemente.
Bibliografia
Clemente Rebora, Canti anonimi, Milano, Mondadori, 2022.