L’ultima volta – un paio d’anni fa – l’aveva combinata davvero grossa. Con il libro Andrea Gabrieli – Cessate Cantus Giuseppe Clericetti aveva infatti dato alle stampe un puntualissimo epistolario del grande ma misterioso compositore veneziano del Cinquecento; lasciando credere che si trattasse dell’eccezionale riscoperta di una raccolta di lettere autentiche e originali di Gabrieli, non una raffinata e puntuale ricostruzione di un musicologo ticinese degli anni 2000, quali Clericetti appunto è. Apriti cielo: l’accademia ufficiale anziché riconoscervi un modo nuovo, spigliato e avvincente per condurre ed esporre una ricerca sui costumi, le idee e l’ambiente attorno a uno dei giganti della musica passata, vi colse un intollerabile tradimento della deontologia scientifica: anatema!
Oggi Clericetti torna di nuovo sul luogo del delitto – segnatamente l’editore Zecchini – per pubblicare la prima biografia in italiano di un altro peso massimo della storia della musica: Camille Saint-Saëns. Non ci sono – o perlomeno non sembrano esserci – sotterfugi narrativi e formali, ma siccome con i fasti passati Clericetti sembra aver maturato un filo direttissimo con i compositori nell’aldilà, ci siamo permessi di chiedergli un’intercessione del tutto particolare che introducesse il suo nuovo lavoro: 95 anni dopo la sua morte, la prima intervista postuma a Camille Saint-Saëns!
Stimatissimo maestro Saint-Saëns, ringraziandola della rara disponibilità per quest’intervista dobbiamo cominciare chiedendole come se l’è sentita di affidare al controverso Clericetti la prima raccolta italiana dei suoi accadimenti artistici ed esistenziali?
Ah ah ah (ride).... Proprio per gli strali ricevuti dalla musicologia benpensante ho avuto grande piacere che fosse lui a occuparsi di questa mia nuova biografia! Con la sua precedente pubblicazione Clericetti ha agito come Zorro: ha disegnato sul pancione dei tronfi musicologi – quelli con la «m» volutamente minuscola – la verità che si fa gioco, la cultura leggera, il divertimento dei colti...
Come mai arriva solo ora la sua prima biografia in lingua italiana? Perché un compositore della sua statura ha dovuto attendere così a lungo: in vita ha forse avuto qualche problema con l’Italia o l’italianità?
Bella domanda, ma non sono così idiota da ritenere che tutti debbano per forza occuparsi di me, come invece credevano per loro stessi i miei colleghi Massenet, Franck, d’Indy. È vero, mi è capitato di scrivere male di certi compositori italiani, come Bellini o Verdi. Ma su Verdi ho poi rimediato in tarda età e gli riconosco il genio del terzo atto di Rigoletto. Adoro inoltre il Mefistofele di Boito. E per la verità sono sempre stato ben accolto dall’Italia, dove si tennero importanti recite del mio Samson et Dalila.
Il grande pubblico la conosce soprattutto per Le Carnaval des animaux, un’opera unica nel suo genere in tutta la storia della musica, ma anche un’opera che ha dato adito a fraintendimenti tali che lei stesso si trovò costretto a impedirne ogni ulteriore esecuzione fino alla sua morte. Rifarebbe oggi la stessa scelta?
Sì: talvolta bisogna poter influire sul mercato, provocarlo e suscitare certe aspettative... (ride). Di quella composizione ho lasciato che si divulgasse Il cigno, ma il resto è stato pubblicato solamente dopo la mia morte. Vi è piaciuta la presenza dei Pianisti nel mio zoo? E le sei citazioni, fra cui la Cavatina di Rosina di Rossini, nei Fossili? Ne vado fiero, e anche l’amico Liszt ne aveva gustosamente riso in un’esecuzione privata!
L’immagine di lei che spesso è stata propagandata è quella di un artista serio, quasi severo. Si sono sbagliati, i musicologi?
Se proprio vogliamo parlare di cose serie, sì: la musica è una cosa molto seria. E mi spaventano le persone che, solamente per saper canticchiare un’arietta, si permettono di scrivere critiche e recensioni. Perché mai – se la critica letteraria è fatta dai letterati, se in medicina, architettura o economia si ascolta il parere degli specialisti – invece in musica si dà retta ai dilettanti? Questo è un grave problema che, per quel che vedo, si verifica anche nel vostro Ticino. Non bisogna transigere, in questo sono severo.
Lei è passato alla storia anche per essere stato – nel 1908 con L’Assassinat du duc de Guise – il primo grande compositore a cimentarsi nella scrittura di una colonna sonora per il cinema. Avrebbe mai pensato che quest’arte, allora recentissima, avrebbe scalzato in popolarità tutte le altre?
Sì, lo immaginavo, e per questo accettai con grandi piacere e responsabilità quel nuovo incarico. Lavorai con dedizione davanti a uno schermo, studiando fotogramma per fotogramma, e questa puntualità la si può sentire in quanto la musica dell’Assassinat senza il supporto delle immagini non ha alcun senso: vado molto fiero del risultato così pienamente cinematografico. Addirittura per quell’occasione registrammo anche l’esecuzione dal vivo, in modo da poterla riprodurre in assenza di un’orchestra: pionieristico, vero?
Il fallimento del matrimonio che lei contrasse a quarant’anni con la diciannovenne Marie-Laure Truffot ha fatto parlare – e certamente spettegolare – attorno a una sua possibile omosessualità nascosta. Visto con gli anni che oggi ci separano dagli eventi, e con la mentalità lievemente più aperta dell’Europa del 2016, ci può dire qualcosa in proposito?
Non rivelerò certo a lei, o ai lettori, fatti che riguardano la mia sfera sessuale! E i miei gusti o tendenze non devono influenzare il giudizio sulle mie composizioni, ci mancherebbe! Teniamo ben separate le due sfere, quella artistica e quella privata, s’il vous plaît!
Una particolare dedizione è stata per lei quella verso l’organo, strumento che i suoi colleghi coevi coltivavano sempre meno. Cosa l’ha spinta a mantenere il contatto con questo strumento, per alcuni troppo segnato dalla funzione liturgica?
Ho trascorso vent’anni della mia esistenza come organista titolare della Chiesa della Madeleine, a Parigi: i vent’anni più felici, perché non c’è gioia musicale paragonabile a quella che può regalare l’improvvisazione all’organo. Certo, il mio stile era più colto di quello del mio predecessore. Un giorno il parroco mi chiese di essere più vicino alle aspettative dei fedeli, che frequentavano l’Opéra-Comique; gli ho risposto che quando le sue prediche si fossero adattate alle battute dell’Opéra-Comique, mi sarei adeguato anch’io con le mie musiche.
L’ultima parte della sua carriera le ha regalato un grande successo nei paesi anglosassoni mentre nella sua Francia pubblico e critica sembravano molto più attratti dalle novità offerte da autori quali Claude Debussy o Maurice Ravel. Si è trattato di un fisiologico ricambio generazionale o dietro tale evoluzione ci fu dell’altro?
Non sopporto la musica di quei due: pura barbarie. La musica è un linguaggio, con regole di grammatica, di sintassi, di forma e come tale dev’essere chiara: il destinatario deve comprendere il messaggio, e sapere sempre dove ci si trova. La musica deve evitare l’anarchia di Richard Strauss –la più vivida incarnazione del cattivo gusto tedesco – e di Igor’ Stravinskij, come pure sfuggire la noia causata da Johannes Brahms.