Bruti e catapecchie

Una storia delle ricerche sull’origine della competenza linguistica del giornalista e scrittore americano Tom Wolfe
/ 28.11.2016
di Stefano Vassere

«Nessuno nel mondo accademico aveva mai visto – o anche solo sentito raccontare – un simile exploit. In appena cinque anni alla University of Pennsylvania (1953-1957), un dottorando di poco più di vent’anni si era impadronito di un’intera disciplina, la linguistica, ne aveva scosso le fondamenta e l’aveva trasformata da spugnosa scienza sociale in scienza vera, esatta, firmando il tutto con il suo nome: Noam Chomsky».

La svolta strutturale nella linguistica americana e quindi nella linguistica tout court che mandava in soffitta centocinquanta anni di disciplina e promuoveva un settore umanistico nel fortino delle scienze da politecnico è, anche, una questione di localizzazione. Nel senso letterale di collocazione del ricercatore. Fin lì, fino alla fine degli anni Cinquanta, essa era condotta partendo per «spedizioni in mezzo al nulla», dove raccogliere «vagonate di aneddoti frammentari», «escursioni in capo al mondo per intervistare bruti in fetide capanne». Ora tutto si ritirava negli uffici degli scienziati, nella loro testa, e non c’era bisogno di quadernetti e grafie fonetiche, perché la verità sulla competenza linguistica, sull’organo del linguaggio era tutta ragionamenti e speculazioni, tutta teoria.

Tom Wolfe è noto soprattutto come narratore e supremamente per Il falò delle vanità, assoluto capolavoro e parabola dell’era reaganiana, da cui, anche lui chef-d’oeuvre, il film dallo stesso nome di Brian De Palma. Questo Il regno della parola è piuttosto un saggio, di un genere di giornalismo narrativo che gli americani conoscono meglio di noi: un canone che «racconta» fatti realmente accaduti come un romanzo, con un effetto accelerante sulla lettura che ce lo fa consumare tutto a cento all’ora.

La vicenda è quella che riguarda il segreto del linguaggio, da dove viene insomma la facoltà che ci distingue dagli altri animali (anche da quelli da cui discendiamo), chi ha studiato questa cosa, chi è arrivato più vicino alla verità, chi ha fallito allargando le braccia e arrendendosi, come si sviluppa il costume scientifico di questa ricerca. Quindi un percorso lungo e tortuoso che da Darwin conduce a Chomsky e Pinker, passando per Mendel e Skinner, dall’evoluzionismo al comportamentismo, alla grammatica universale, ai fallimenti di tutti questi, all’ipotesi wolfiana della lingua come semplice e potentissimo artefatto culturale.

Gran parte del libro, il suo cuore migliore, è dedicato a Chomsky, che ha ottantotto anni e su alcune cose sembra stia un po’ tirando i remi in barca, tra scricchiolii inquietanti e l’apprensione dei suoi discepoli. Sembra a Wolfe che la teoria linguistica che ha tenuto in piedi il settore per sessanta anni come uno schiacciasassi stia vacillando tra dubbi e controesempi, che si nascondono nelle abitudini linguistiche di sconosciute popolazioni dell’Amazzonia brasiliana rivelate da chomskiani eretici dimentichi dell’esempio del Maestro. In sostanza, molte idee, tanto fermento e però sulla scommessa principale («Che cosa è il linguaggio?») pochi risultati.

Non sarà – certo che no! – lo scoppiettante libro del bravissimo Tom a cancellare tutta questa tradizione di solidità scientifica; ma alla fine della narrazione, una cadenza sul linguaggio («Il linguaggio è ciò a cui l’uomo rende omaggio in ogni istante che possa immaginare») e su perché vale la pena studiarlo vale almeno il prezzo del biglietto.

«Nel 1960 il regno di Noam Chomsky in linguistica era così assoluto che gli altri linguisti si ridussero a riempire i vuoti e a fornire note a piè di pagina al suo lavoro. Nel 1986 l’Arts & humanities citation index, che traccia la frequenza con cui gli autori vengono menzionati nell’opera altrui, Chomsky si classificò ottavo. I primi sette erano: Marx, Lenin, Shakespeare, Aristotele, la Bibbia, Platone e Freud».