Fino a quarant’anni Ezio Bosso era semplicemente un grande musicista; un virtuoso del pianoforte applaudito alla Carnegie Hall di New York e alla Scala e un promettente direttore. Poi nel 2011, in seguito a un’operazione al cervello per un melanoma, gli scoprirono una grave malattia autoimmune che lo costrinse al ritiro dalle scene; quattro anni di silenzio, la dura rieducazione per imparare di nuovo a parlare e camminare e poi anche a muovere le dita su un pianoforte costruito apposta per lui con tasti più leggeri. Il suo ritorno ha fatto ovviamente scalpore, la sua storia ha scosso e commosso, rendendo il musicista torinese un personaggio ben più globale rispetto al pure pianista-direttore. Lo conferma l’attenzione mediatica che si è scatenata all’inizio della sua nuova tournée italiana: sabato ha suonato a Milano con la Stradivari Chamber Orchestra, ora lo attendono i teatri delle maggiori città con orchestre e programmi diversi, dove accanto ai capolavori di Dvorak e Ciajkovskij compaiono suoi brani; perché nel frattempo, oltre a suonare e dirigere, Bosso si sta proponendo anche come compositore.
Maestro, come vive questo momento?
Sono felice! Ho appena diretto la Serenata di Ciajkovskij, autore che adoro e di cui tra qualche giorno eseguirò la Patetica; stavo notando che in questa tournée mi hanno chiesto le sinfonie che di solito vengono affidate a un direttore quando è a fine carriera: la Nona di Dvorak, la Quinta di Mahler, appunto la Sesta di Ciajkovskij; non è che mi stanno gufando?
Lo dica lei.
No dai, vedo anzi una grande attenzione e una viva partecipazione del pubblico; sto facendo delle lezioni-concerto per neofiti, con la mia orchestra e il mio coro abbiamo spiegato settimana scorso l’Ave verum di Mozart e le gente si è commossa. Lasciamo che a gufare siano i tifosi.
A proposito: lei è di Torino quindi?
Famiglia granata e quindi non posso che tenere al Toro; però – sarà la pena dantesca del contrappasso – ai miei concerti non ho mai visto un granata ma solo juventini; Trezeguet ad esempio mi segue spesso.
Qualcuno potrebbe malignare che grazie alla malattia le si sono aperte tante porte, su di lei si sono accesi tanti riflettori.
Beh, non è che prima non avessi fatto nulla. Quando sono stato operato suonavo da 35 anni, mi ero esibito nei templi della musica mondiale, lavoravo con direttori come Claudio Abbado.
Digressione: come ha iniziato?
Non sono nato in una famiglia di musicisti: papà era tranviere, mamma lavorava alla Fiat. Mi mandarono a lezione da mio zio quando avevo quattro anni, fecero anche dei sacrifici per farmi studiare. A dieci anni iniziai a suonare in un’orchestra: fagotto perché era uno strumento che non voleva nessuno. Mi venne l’asma e il direttore, pur di non mandarmi via, mi fece passare al contrabbasso perché anche lì non c’erano strumentisti. Adoravo la musica, fin da subito mi faceva sentire compreso e amato.
Torniamo all’oggi e a un altro possibile sospetto: grazie alla malattia la sua notorietà è cresciuta notevolmente, valicando i confini della classica.
Questo credo sia vero,però se c’è una cosa che non sopporto è che la gente non venga a concerto per ascoltare la musica ma per vedere me; vorrei far dimenticare il personaggio che sono diventato e far sì che la gente sia attenta solo a ciò che ascolterà, altrimenti è come quando si indica la luna e uno fissa il dito invece che guardare in cielo.
Però con un personaggio come lei…
Lo so, e non solo per la malattia, attiro anche per il look: amo indossare sul palco stivali, cinturoni di pelle e skinny jeans; però il mio obiettivo è che chi viene attratto da me al termine del concerto si porti a casa soprattutto la musica. Capita per fortuna; settimana scorsa abbiamo eseguito la Serenata per archi di Ciajkovskij, una signora e sua figlia sono venute alla fine nel camerino per dirmi che non avevano mai ascoltato una musica più bella in vita loro; è questo il risultato che cerco.
Che cos’è la musica per lei?
L’ho capito bene lavorando con Abbado, mi ha chiarito un’intuizione che avevo avuto fin da quando avevo ascoltato le prime note a tre anni: la musica è essenziale per l’uomo perché permette di instaurare un legame con qualcosa di meravigliosamente ineffabile; non ci fa star bene perché ci fa sentire emotivamente bene, non è qualcosa di umorale, di epidermico. La musica è qualcosa di intimamente connaturato col nostro essere e con la realtà: il frinire degli alberi agitati dal vento, la pioggia sul mare, lo stesso scorrere del sangue nelle vene crea un suono di fondo. La musica esiste a prescindere da noi, l’uomo è andato a cercarla, tentando di imitare i suoni della natura, cantando e creando gli strumenti musicali.
Che cosa le ha dato la musica?
Gioia, felicità, conoscenza; ma la domanda per un musicista andrebbe ribaltata: non che cosa mi può dare la musica, ma che cosa posso fare io per la musica. Io mi sto spendendo completamente per la musica, per me suonare è un sacrificio nel senso etimologico, di rendere sacro, per avvicinare chi ascolta alla Bellezza che si manifesta attraverso le note.
Pensando alla sua condizione sarà un sacrificio anche fisico.
Certo, inutile nasconderlo. Per me suonare è molto faticoso, mi stanco e devo stare attento ai tempi di recupero. Ma ne vale la pena.
In un’intervista diceva che grazie alla malattia ha visto la musica in modo nuovo, più bello; non è stato frustrante passare dall’eseguire i brani più virtuosistici e poetici a re-imparare le basi della tecnica, a faticare sui brani più semplici come un principiante?
Inutile nasconderlo, sono passato attraverso la rabbia e la nostalgia, i momenti duri ci sono stati; ma proprio rifacendo tutti i passi, dovendo imparare di nuovo ciò che pensavo di conoscere perfettamente, mi ha permesso di capirlo meglio.
I compositori prediletti?
Ciajkovskij, Beethoven e Mozart, anche se non lo dirigerò mai: dopo aver ascoltato come lo faceva Abbado il mio mi sembrerebbe troppo brutto.