Bosso, la gioia si può imparare

Il 15 maggio se ne è andato il musicista e compositore Ezio Bosso
/ 25.05.2020
di Enrico Parola

C’era un modo infallibile per irritare Ezio Bosso: domandargli della sua malattia con l’intento di dipingerlo come un eroe. «Io sono un musicista, per favore parliamo di musica» era la sua risposta, garbata ma irremovibile. Nonostante i suoi sforzi, l’annuncio della sua morte (15 maggio) è stato accompagnato inevitabilmente da tanti riferimenti alla malattia neurodegenerativa che l’aveva colto nel 2011 segnandone la vita e la carriera.

Era nato nel 1971 nella periferia operaia di Torino; «erano gli anni di piombo, quando ci dicevano che una certa sera era meglio non uscire ci si barricava in casa, si sentivano anche le sparatorie» era il ricordo della sua infanzia; era nato «in una famiglia operaia politicamente impegnata, quindi con l’idea che anch’io dovessi fare l’operaio; per abbracciare la musica dovetti compiere un atto di ribellione verso i miei». Atto osteggiato in famiglia ma benedetto da un talento enorme: studente di pianoforte in Conservatorio, dove un compositore come John Cage rimproverò l’insegnante intento a criticarlo, a 16 anni già si esibiva in tournée internazionali, richiesto da direttori come Claudio Abbado. Poi si era dedicato lui stesso alla direzione, oltre che alla composizione.

Nel 2011 la malattia, che ne ha minato pesantemente il fisico, arrivando a rendergli impossibile il suonare, mentre ha continuato a dirigere. Una lotta per l’arte in cui ha profuso ogni stilla d’energia attingibile dal suo corpo martoriato; arrivava a franare esausto dopo una prova o un concerto, con le membra totalmente irrigidite; e lo si doveva caricare a forza sulla carrozzina per lasciare il teatro, atteso fuori dai camerini da una folla idolatrante che gli porgeva di tutto, anche cioccolatini e peluche.

Proprio il modo di vivere la sua condizione (era ostinato in tutto: pur di non farsi aiutare arrivava a scendere le scale di un ristorante sedendosi su ogni gradino e a risalirle letteralmente avvinghiandosi al corrimano) e l’amore totale alla musica l’hanno reso un’icona planetaria: «Ho imparato a rispondere alla bruttezza con la bellezza, al dolore con l’amore, ma è una cosa che vogliono tutti; il mio successo al Festival di Sanremo si spiega per questo: non è tanto per me, ma perché la gente ha voglia di sentire una musica che parli di cose grandi, che toccano il fondo del cuore e del vivere; magari non lo sa, ma quando le capita di ascoltare queste cose il cuore sobbalza; invece oggi si punta sul sentimento e non sul sentire, sull’emozione e non sulla comprensione».

Non a caso l’autore più frequentato negli ultimi tempi è stato Beethoven, in particolare le sinfonie Eroica e Quinta, quella del «destino che bussa alla porta». «Beethoven proprio in quegli anni capì che stava diventando sordo, e si trattenne dal suicidarsi perché doveva fissare sul pentagramma, per comunicarlo all’umanità, quello che il genio della musica sentiva suggerirgli dentro» spiegava, pronunciando queste parole con un’immedesimazione totale: il dramma di Beethoven era lo stesso dramma che lui stava vivendo; e uguale era il modo: il dolore, la fatica, gli sforzi non erano negati né minimizzati, ma non erano la parola ultima, erano «solo» la circostanza datagli per continuare a godere della Bellezza (sempre si premurava che la si scrivesse con la «B» maiuscola).

È l’affermazione di una grande bellezza nella sofferenza e non della sofferenza in sé che lo ha fatto suo malgrado un modello, un riferimento, anche una consolazione. Sperava che il suo sorriso arrivasse alla gente: «Io sorridevo da bambino e sorrido ora, anche se muscolarmente ho dovuto reimparare a farlo; è un’espressione di serenità, che a sua volta nasce dall’accettare sé stessi: io mi vado bene così, mi ritengo molto fortunato perché ho sempre avuto davanti a me tanta bellezza».Una delle sue composizioni titola Sesto respiro, «il nostro ultimo respiro, che si trasmette agli altri; ma noi facciamo di tutto per dimenticare che siamo un ciclo di vita e non un ciclo di morte».