Era il lontano 1991 quando la Columbia Records pubblicò il primo volume di quella che sarebbe divenuta una delle opere rock monografiche a lungo termine più intriganti di sempre, e non solo per i fan di Bob Dylan: parliamo della cosiddetta Bootleg Series, che, come il nome stesso suggerisce, raccoglie, in edizione infine «ufficiale», incisioni precedentemente disponibili soltanto sotto forma di nastri abusivi registrati dai fan – dando così vita a una serie di testimonianze giunte a costituire veri e propri capisaldi nella lunga carriera dell’artista statunitense, recentemente coronata dal conferimento del premio Nobel.
E oggi, a oltre venticinque anni da quella prima uscita, ecco giungere nei negozi il tredicesimo volume della collezione, il quale si distingue per il fatto di concentrarsi su uno dei periodi artistici solitamente considerati come «minori» dalla storiografia musicale ufficiale, esplorando a fondo il versante live di quella che, tra le molteplici fasi creative attraversate dall’artista in oltre cinquant’anni di carriera, può forse considerarsi la più controversa in assoluto: il cosiddetto «periodo cristiano», che, come qualsiasi «dylanologo» può confermare, ha sempre subìto attacchi alquanto acidi dalla stragrande maggioranza dei critici musicali.
Anche perché questo periodo della camaleontica carriera di Dylan deve il suo appellativo alla conversione religiosa di Bob, il quale, alla fine degli anni 70, decise di colpo di diventare un cosiddetto «cristiano rinato» (Born Again Christian), ovvero un adepto di una delle tante sette evangeliche che spopolano negli Stati Uniti, nota ormai da decenni come la favorita da molti celebri «redenti» quali ex gangster e serial killer.
Un ennesimo «cambiamento di pelle» che avrebbe avuto grandi e fondamentali ripercussioni sulla produzione artistica di Bob: al punto che, ascoltando questo doppio album, dall’eloquente titolo di Trouble No More, sorge il dubbio che l’entusiasmo da predicatore navigato con cui l’artista si buttò nella sua nuova «vocazione spirituale» – arrivando al punto di arringare il pubblico presente ai suoi concerti con veri e propri sermoni improvvisati – fosse in realtà poco più di un pretesto per permettergli di lanciarsi, dal punto di vista artistico, in un’avventura mai tentata.
Ecco quindi come colui che era stato il simbolo della canzone di protesta degli anni 60, per poi convertirsi dapprima al rock e in seguito perfino al country, sbalordì il mondo musicale gettandosi anima e corpo nel gospel più puro, e realizzando, tra il 1979 e il 1981, ben tre album dalle tematiche perlopiù religiose (Slow Train Coming, Saved e Shot of Love), intrisi di frasi e scenari mutuati direttamente dalle Sacre Scritture. Non solo: armato di ottime e qualificate coriste appartenenti a un mondo fino ad allora per lui sconosciuto, Dylan riuscì a calarsi a tal punto nel suo nuovo ruolo da riscoprire un’energia e un entusiasmo performativo davvero notevoli – proprio quei tratti che, oggi, emergono con maggior forza dall’ascolto di questo disco.
Qualsiasi senso di disagio davanti al carattere apparentemente un po’ «bigotto» del contesto svanisce così come neve al sole non appena si arriva all’elemento più importante dell’equazione: ovvero, la musica. Sì, perché nonostante i tre album di cui sopra siano stati a dir poco disprezzati dagli scandalizzati commentatori musicali del tempo (e lo siano a tutt’oggi), nessuno può negare come il repertorio cosiddetto «cristiano» contenga brani di assoluta forza e potenza – al punto che il livello qualitativo resta molto alto lungo l’intera tracklist di questo doppio CD.
Anche e soprattutto in quanto la resa dal vivo di un simile registro stilistico appare, anche a tanti anni di distanza, semplicemente perfetta, mostrandoci un Dylan talmente infervorato dalla sua opera di evangelizzazione da ritrovare un rigore e una potenza espressivi degni dei fasti giovanili: basti pensare alla forza drammatica di un pezzo solenne come In The Garden, incentrato sui fatti del Getsemani, o al senso di struggimento e solitudine esistenziale che permea le malinconiche riflessioni di Every Grain of Sand. Non solo: perfino i brani di carattere palesemente romantico (su tutti, gli struggenti Precious Angel e Caribbean Wind) mostrano un equilibrio perfetto tra liricità e forza melodica; e per chi teme che tutto ciò possa costituire un eccessivo allontanamento dal rock puro, pezzi come la travolgente cavalcata elettrica Solid Rock o il ritmato Watered-Down Love sono sufficienti a fugare ogni dubbio.
Il che dimostra come ci siano buoni motivi per sperare che questa serie, tradizionalmente riservata ai fan più sfegatati del «menestrello di Duluth», possa costituire un regalo anche per gli ascoltatori casuali – i quali, complice l’attenzione che il Premio Nobel ha riportato su Dylan, potrebbero, tramite queste tracce, scoprire un lato poco noto di un artista destinato a essere ricordato come tra i più complessi e sfaccettati della storia del rock.