L’atto di nascita del Surrealismo data primo dicembre 1924, quando l’introduzione della raccolta di poesie di André Breton, Poisson soluble, ne sarebbe diventata il primo Manifesto, ma i tributi verso correnti artistiche precedenti sono molteplici: la pittura medievale, quella fantastica di Jheronymus Bosch e Giuseppe Arcimboldo, i romanzi gotici di Victor Hugo. Insomma, quelle manifestazioni che hanno fatto del sogno e dell’irrazionale la cifra della loro poetica.
Nasceva così la più onirica delle avanguardie del XX secolo che già nel suo Manifesto dichiarava guerra alla percezione mediata dalla ragione per liberare le potenzialità immaginative dell’inconscio ed espandere la realtà fino a una dimensione più piena e appagante dell’esistenza, una surrealtà appunto. Grande fu il debito dei surrealisti verso la psicanalisi e lo studio dell’inconscio avviato in Europa da Sigmund Freud; l’apertura alle teorie freudiane li portò a riconoscere ai sogni e alle allucinazioni la patente di realtà «altra», con nuovo significato e bellezza, contro i principi razionali potentemente stigmatizzati.
In un articolo del 1925, Le Surréalisme et la peinture, Breton elogiava Picasso per avere abbattuto il concetto di realtà univoca attraverso le sue visioni frammentate e inneggiava a un nuovo modello di pittura che andasse oltre la mera rappresentazione del mondo. Agli esordi del movimento, gli artisti diressero la loro bussola verso l’espansione sia della propria coscienza che di quella dello spettatore attraverso l’uso di tecniche non convenzionali per portare l’arte fuori dai binari entro i quali operava tradizionalmente e legarla, spesso in modo trasgressivo, alla quotidianità.
La poetica surrealista oscilla tra la liberazione dell’individuo – il suo affrancarsi dalle imbrigliature della ragione – e la liberazione della società con l’adesione a posizioni progressiste e anticolonialiste: su questo binomio è centrata la mostra che il Mudec ha inaugurato lo scorso 22 marzo, Dalí, Magritte, Man Ray e il Surrealismo. Sei sezioni tematiche, 180 opere tra dipinti, sculture, libri, documenti provenienti dal Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, che vanta una collezione unica al mondo iniziata negli anni Sessanta del secolo scorso e annovera artisti come Dalí, Ernst, Magritte e Man Ray. Un percorso per spiegare in modo esaustivo e divertente al tempo stesso un fenomeno che non è stato solo un movimento artistico ma un atteggiamento, un modo diverso di pensare il mondo e di pensarsi, e che nella parte finale dialoga con alcune opere della collezione permanente del Mudec per illustrare il rapporto che legò gli esponenti del movimento alle culture native.
Le sei sezioni del percorso illustrano, con artisti famosi e meno conosciuti, i temi cari alla ricerca surrealista: sogno, psiche, amore e desiderio, una nuova idea di bellezza. Lo fanno anche con tecniche sperimentali come il collage, spesso utilizzando oggetti di risulta e lo scopo è sempre il rifiuto della ragione e la speranza di creare uno shock poetico in grado di cambiare il mondo. E se le prime due sezioni traghettano il visitatore in medias res nella mentalità surrealista con il Manifesto di Breton del 1924 e l’iconico sofà di Salvator Dalí a forma di labbra, Mae West Lips Sofa del 1938 (nella foto), la terza ci porta, opera dopo opera, nel cuore della visione artistica di Dalí, che dopo le prime sperimentazioni cubiste passò a un modo di dipingere più tradizionale e illusionistico giocando con immagini che si prestavano a numerose interpretazioni, stile che definì «metodo paranoico-critico».
«Il fatto che io stesso non capisca il significato dei miei quadri, nel momento in cui li dipingo, non significa che i quadri non abbiano significato; al contrario, il loro significato è così profondo, complesso, coerente, involontario che sfugge alla semplice analisi del pensiero logico», scriveva Dalí nel 1935. Le sue parole si attagliano perfettamente al dipinto Impressioni d’Africa (1938): il pittore è al cavalletto, la testa della moglie Gala fluttua sopra di lui, i suoi occhi quasi diventano la facciata di un edificio. Sopra di lei un’aquila in volo; figure e paesaggio si fondono, i rapporti di scala tra le varie parti della composizione sembrano fluidi, in continua oscillazione.
I surrealisti nella loro dichiarata guerra alla ragione subirono la fascinazione di tematiche quali l’amore e il desiderio e nutrirono una vera passione per le culture native. Da posizioni eccentriche rispetto alla morale borghese del tempo, raccogliendo l’invito di Freud, esplorarono desiderio e pulsioni come manifestazioni di sé, mettendo in pratica nelle loro vite relazioni articolate e libero amore. In una sezione dedicata sono raccolti scritti, manifesti e spezzoni di film che ai tempi suscitarono ampio dibattito sfociato spesso in scandalo. Così come furono grandi viaggiatori e collezionisti di oggetti etnografici. Emblematico il caso del Messico dove sul finire degli anni Trenta trovarono rifugio molti surrealisti, tra cui Breton che vi soggiornò più volte.
Il loro atteggiamento nei confronti del colonialismo e delle culture native fu ambivalente: non lesinarono critiche alle politiche predatorie degli stati europei salvo essere collezionisti seriali di oggetti riconducibili ai flussi coloniali. Maschere, sculture, – africane, di origine oceanica e dell’America del Nord – collezionate per gusto tassonomico, ma soprattutto perché delle culture primitive apprezzavano la valenza simbolica e onirica, l’aprirsi a significati altri, la loro perfetta adesione al concetto di meraviglioso.
La parabola artistica del Surrealismo è durata poco più di due decenni, il suo retaggio però vive ancora ogniqualvolta non ci accontentiamo del primato della ragione e siamo disposti a scendere nella profondità del sentire per trovare altre spiegazioni e significati che ci restituiscano una pienezza di comprensione. E allora, oggi come cent’anni fa, siamo un po’ tutti surrealisti!