Dove e quando

Zanele Muholi, Kunstmuseum Luzern, Europaplatz 1, fino al 22.10.23. Ma-do 11.00-18.00; me 11.00-19.00. www.kunstmuseumluzern.ch

Courtesy Muholi Art Institute (© Zanele Muholi)
Courtesy Muholi Art Institute (© Zanele Muholi)

Bellezza e dignità negli scatti della leonessa nera

Le fotografie dell’attivista visiva Zanele Muholi protagoniste al Kunstmuseum di Lucerna
/ 31.07.2023
di Elio Schenini

Sonnyama Ngonyama, traducibile in «Ave, leonessa nera», è il titolo di una straordinaria serie di autoritratti di Zanele Muholi, che, a partire dalla Biennale di Venezia del 2019, ha contribuito a fare dell’artista sudafricana – lei preferisce in realtà definirsi un’attivista visiva – una delle figure più acclamate del panorama artistico internazionale.

Da quella folgorante apparizione nella laguna veneta, dove all’interno dell’accumulo spesso indistinguibile di novità rappresentato da ogni Biennale, le sue fotografie erano subito apparse, come avevamo avuto modo di scrivere in quell’occasione, uno dei sapori più forti e decisi, il percorso di Zanele Muholi è stato costellato di esposizioni in alcuni dei principali musei europei e americani. Dopo la grande retrospettiva presentata a Londra dalla Tate Modern nel 2020 e pur tra le mille difficoltà che hanno caratterizzato la programmazione espositiva un po’ ovunque durante l’emergenza pandemica dovuta al Covid 19, le sue fotografie sono state esposte in questi ultimi anni da importanti istituzioni non solo a Berlino, Parigi, Milano, Valencia e Boston ma anche in Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia, Islanda. Non solo, un centinaio di immagini della serie Sonnyama Ngonyama sono state raccolte anche in uno splendido e curatissimo libro fotografico edito non a caso da Aperture (esiste tuttavia anche una versione italiana prodotta da 24ore cultura), che ci permettiamo di consigliare a chiunque ami la fotografia e i libri.

L’utilizzo programmatico dell’autoritratto fotografico en travesti come strumento di indagine artistica ha precedenti illustri nell’arte contemporanea. Basti pensare a un’artista come Cindy Sherman che fin dalla seconda metà degli anni Settanta con la serie degli Untitled Film Stills ha interrogato gli stereotipi che caratterizzano la rappresentazione femminile nell’universo dei media. Tuttavia, mentre il suo lavoro nel corso degli anni ha visto una progressiva accentuazione degli elementi caricaturali e grotteschi che sempre più spesso si sono tinti di atmosfere horror, immergendo lo spettatore in un universo a volte al limite dello splatter, nel caso di Zanele Muholi assistiamo a una sorta di processo inverso. Anche se la sua figura appare in queste fotografie, accostata, avvolta, agghindata, circondata da oggetti quotidiani banalmente insignificanti se non addirittura triviali (dei guanti in lattice, delle mollette per il bucato, dei rotoli di carta igienica, dei pennarelli, dei tubi flessibili per aspirapolvere, delle camere d’aria per biciclette), l’immagine, per quanto in certi casi non escluda la presenza di un velo di ironia, non scade mai nella caricatura. Ne è un chiaro esempio il ritratto che abbiamo scelto in pagina dal titolo Bester I, realizzato nel 2015 a Mayotte, un arcipelago dell’Oceano Indiano. L’elemento fondamentale di queste fotografie, che si ispirano alla fotografia di moda pur capovolgendone gli intenti, è la grande dignità e bellezza che traspare dal volto dell’artista a dispetto di ogni intervento che potrebbe umiliarlo, dileggiarlo, degradarlo o violentarlo.

L’espressione imperturbabile, senza mai l’accenno di un sorriso, gli occhi bianchissimi incastonati nella vellutata profondità della pelle resa ancora più nera dall’accentuazione del contrasto e piantati quasi sempre in quelli dello spettatore a sfidarlo e a chiedergli conto delle sue posizioni, l’artista ci invita a mettere in discussione i pregiudizi e gli stereotipi con i quali siamo abituati a guardare il mondo. Nata nel 2012 come omaggio postumo alla madre, morta nel 2009 dopo aver trascorso tutta la sua vita come donna delle pulizie in una realtà come quella sudafricana a lungo segnata dall’apartheid, questa serie fotografica che continua ad arricchirsi di nuovi elementi vuole in primo luogo affermare la bellezza e l’insopprimibile dignità dell’essere umano, indipendentemente da ogni differenza di sesso, religione, colore della pelle, identità di genere. Una serie che senza rinunciare a un’estrema qualità formale riesce ad affermare con efficacia un profondo valore politico, contrapponendosi con forza a ogni forma di razzismo e di sopraffazione dell’essere umano.

Se Sonnyama Ngonyama è indubbiamente la serie più significativa e importante di Zanele Muholi, tutta la sua produzione artistica appare strettamente connessa al suo attivismo politico e sociale in favore della comunità LGBTQIA+ sudafricana, come evidenzia la mostra appena aperta al Kunstmuseum di Lucerna, dove prima di approdare alla sala con la serie degli autoritratti, il visitatore ha modo di osservare le altre serie realizzate dall’artista e di ripercorrere attraverso una sezione documentaria le vicende politiche sudafricane, dalla lotta per la fine dell’apartheid a quelle contro le violenze e le discriminazione di genere.

L’approdo alla fotografia di Zanele Muholi all’inizio degli anni 2000, dopo aver seguito un corso di David Goldblatt, il fotografo che più di ogni altro ha raccontato gli anni dell’apartheid, è infatti strettamente connesso al suo impegno a favore della comunità lesbica, gay e queer sudafricana e nasceva dalla constatazione che in quel periodo vi era una cancellazione visiva quasi totale delle persone che non si riconoscevano in una visione binaria della sessualità all’interno della narrazione sociale del suo paese. Come lei stessa ha ricordato in alcune interviste, a spingerla a imbracciare la macchina fotografica è stata la consapevolezza che solo attraverso il recupero al diritto a essere rappresentati per quello che si è all’interno del contesto sociale è possibile affermare il proprio diritto all’esistenza e al rispetto della propria identità. Sono nate così le sue prime serie, come Only Half the Picture del 2002, che contrapponeva momenti di intimità tra persone queer e tracce di traumi fisici dovuti a violenze, oppure Being, del 2006, che si proponeva di contrastare la visione tradizionale secondo la quale l’omosessualità non apparteneva storicamente ai popoli africani, ma era un fenomeno che vi era stato importato con la colonizzazione da parte degli europei. Sempre nel 2006 prendono avvio altre due serie significative dell’artista, Queering Public Space, che rappresenta figure di transessuali neri all’interno di luoghi pubblici per affermare il loro diritto a essere parte dello spazio pubblico come qualsiasi essere umano, e Faces and Phases, una sorta di ritratto collettivo esteso nel tempo della comunità LGBTQIA+ sudafricana che documenta la mutevolezza dell’identità individuale.

Coerente con la propria visione, da allora Zanele Muholi, oltre a realizzare gli scatti per cui è diventata giustamente celebre, ha continuato e continua a incoraggiare le persone a fare come lei e a utilizzare la macchina fotografica come un’arma con la quale contrapporsi alla violenza di chi vuole negare agli altri il diritto