Il globo sembra respirare aria meno inquinata. Spiagge e mari tornati a colori primordiali. Polveri sottili in ritirata. L’emergenza pandemica ha compensato gli sforzi degli inquilini della Casa Bianca e del Palacio de l’Alvorada? Intanto un’autentica boccata d’ossigeno rigenerante viene dal meraviglioso Quartetto Ébène, formato dai violinisti Pierre Colombet e Gabriel La Magadure, dalla violista Marie Chilemme e dal violoncellista Raphaël Merlin. Il loro nome (ebano) è un omaggio agli adorati musicisti jazz e alla materia prima con la quale venivano costruiti gli archetti più preziosi dai mastri archettai francesi (il reattivo, elastico, resistente pau-brasil, il legno di pernambuco).
Invitati a eseguire l’integrale dei quartetti di Beethoven nel sancta sanctorum della Carnegie Hall di New York per il 250esimo compleanno del sommo compositore tedesco («suonare o ascoltare il ciclo completo dei quartetti di Beethoven è un assoluto, la più completa esperienza musicale che ci possa essere»), i quattro artisti hanno realizzato il progetto «Beethoven Around The World» dopo essersi accordati con Air France perché venisse compensato in riforestazione quanto consumato dai loro spostamenti aerei. Potrebbe sembrare una trovata da ecologisti politicamente corretti; invece il movente profondo che anima questo quartetto di fuoriclasse è il desiderio di realizzare l’integrale più difficile nel vivo di città dove il fare musica si intreccia con la storia e con i problemi di tutti i giorni: Philadelphia, Vienna, Tokyo, Sao Paulo, Melbourne, Nairobi e Parigi.
Un viaggio fissato in un diario che accompagna l’edizione in 7 cd (pubblicata da Warner Erato), dove l’esegesi musicale si alterna alle esperienze con uditori non meno ammirevoli di quanto viene eseguito. Giovani strappati alle favelas dall’Istituto Baccarelli di San Paolo cantano per gli ospiti con commovente semplicità e senso ritmico; voci penetranti al Kapiti College di Wellington lanciano il grido d’orgoglio della cultura Maori; serenate degli uccelli cullano le notti dei quartettisti fra le colline di Adelaide; un’organizzazione encomiabile, Ghetto Classics, educa alla musica giovani kenioti fra violenze e privazioni quotidiane nella bidonville di Korogocho; la Cina smisurata non è più quella del Loto blu di Tintin.
In mezzo a tutte queste esperienze, le interpretazioni dei sedici quartetti beethoveniani sbocciano con una freschezza difficile da accostare anche alle migliori formazioni del presente e del passato. Spontanea comunicativa offerta senza alcuna sofisticazione intellettuale, senza la pesantezza di tanti, anche insigni, quartetti di scuola teutonica. Forse è proprio l’attitudine mentale aperta degli Ébène, i quali prima di far musica si domandano «perché», si pongono il problema di evitare di diventare mere macchine da concerti, impilando scritture dopo scritture, e cercano di capire, proprio attraverso quell’unicum che sono i quartetti nell’opera di Beethoven e nella storia della musica, cosa significhi essere musicisti oggi.
Per spiegare come funziona lo strumento-quartetto agli ascoltatori impiegano una metafora pertinente e quanto meno attuale: «l’interprete deve avventurarsi in un’Amazzonia di note, potare con le forbici o usare il machete per arrivare al senso profondo di questa o di quell’opera, per poi restituirla». Il loro lavoro su Beethoven è cominciato ben prima dell’invito integrale. «Nel caso della foresta dei quartetti di Beethoven, quando si crede di aver fatto un cammino logico, è come se la vegetazione ti respingesse istantaneamente: bisogna riprendere più volte il cammino. È un lavoro che si rivela ogni giorno più necessario, più giustificato, perché questa musica dai poteri soprannaturali si attualizza costantemente, agendo sul musicista e sull’ascoltatore di tutte le epoche, privilegio dello spirito moderno di una musica eternamente contemporanea».
Beethoven globetrotter
Il ciclo completo dei quartetti di Beethoven gira il mondo raccogliendone lo spirito
/ 03.08.2020
di Giovanni Gavazzeni
di Giovanni Gavazzeni