Dopo anni di relativo silenzio, negli ultimi tempi diversi libri, spettacoli e film di alto profilo si sono infine soffermati sulle tragiche vicende dei molti coraggiosi che, nel periodo a cavallo tra il 1932 e il 1944, attentarono alla vita di Adolf Hitler allo scopo di salvare il mondo da quella che avevano intuito essere una catastrofe di proporzioni disastrose. Eppure, quasi il dramma che attendeva l’umanità fosse destinato a compiersi fino in fondo, ognuno di questi innumerevoli attentati fallì per un soffio; e colui che era ormai l’uomo più odiato del pianeta finì per attraversare l’intera guerra perlopiù illeso, mentre chiunque avesse osato mettersi sulla sua strada veniva invariabilmente scoperto e massacrato.
E potrebbe forse apparire singolare che, tra i tanti a tentare di eliminare alla radice la minaccia hitleriana, l’unico straniero della lista (eccettuando il generale polacco Karaszewicz-Tokarzewski) sia stato proprio un cittadino svizzero, appartenente quindi a una nazione neutrale, tra le poche a poter sperare di sfuggire alla follia nazista. Soprattutto, ciò che distingue Maurice Bavaud dagli altri attentatori (in tutto oltre una trentina) è la sua totale estraneità al mondo militare o a qualsiasi movimento o partito politico. Bavaud era infatti nientemeno che uno studente di teologia, il che, data la natura del suo gesto, potrebbe suonare come un controsenso; in realtà, il suo identikit psicologico appare ben più complesso – e, sebbene a tutt’oggi poco esplorato – rivela come egli avesse fortemente subìto il fascino oratorio di un nostalgico dell’ex Impero Russo quale il compagno di studi Marcel Gerbohay, con il quale fondò la società segreta anti-comunista Compagnie du Mystère.
In realtà, una delle poche «incursioni» a noi concesse nella mente di Bavaud viene dall’ultima lettera da lui scritta ai genitori, la notte prima dell’esecuzione: «è un momento terribile, e sarebbe insopportabile senza la speranza in un Dio che ricompensi i buoni e punisca i malvagi (…). Chiedo perdono a coloro che hanno qualcosa da rimproverarmi; nel corso della mia breve vita, il mio cuore non ha mai provato reale odio». Tuttavia queste parole, per quanto intrise del profondo spirito cristiano che da sempre animava Maurice, non bastano a spiegare il grande mistero della sua anima: perché nulla, nella scarna biografia del giovane teologo, avrebbe mai lasciato presagire un gesto tanto drastico.
Nato a Neuchâtel nel 1916, Bavaud si era infatti sempre distinto per un carattere piuttosto solitario e sognatore; eppure, d’un tratto, nell’ottobre 1938, lasciò il suo seminario bretone per recarsi dapprima a Baden-Baden e Basilea (luogo in cui avrebbe acquistato una piccola pistola semiautomatica), e poi, dopo una perlustrazione del ritiro privato di Hitler a Berchtesgaden, fino a Monaco, dove si sarebbe fatto passare per un giornalista inviato ad assistere all’annuale parata per l’anniversario del colpo di stato hitleriano del ’23.
Ed è a questo punto che diviene evidente la fermezza di Bavaud – la sua insistenza a sfidare il destino e persistere nella decisione presa: tra la folla assembrata lungo la strada durante la parata, Maurice non riuscì infatti ad avvicinarsi a sufficienza a Hitler da potergli sparare a bruciapelo (la sua pistola non era adatta a tiri da distanza). Un uomo meno persuaso dell’importanza della propria missione avrebbe forse rinunciato a un piano tanto azzardato; ma Bavaud, spinto da una sorta di «sacro fuoco», cambiò invece tattica e, falsificata una lettera di raccomandazione per un incontro personale con il Führer, salì sull’ennesimo treno, deciso a seguire gli spostamenti di Hitler – solo per rincorrerlo inutilmente per giorni prima che, una volta finiti i soldi e costretto a viaggiare senza biglietto, venisse scoperto da un capotreno sospettoso.
Arrestato dalla Gestapo, Maurice venne interrogato sotto tortura: e alla domanda per quale motivo intendesse assassinare il Führer, dichiarò di considerare Hitler una minaccia non solo per l’intera umanità e le dottrine cristiana e cattolica, ma anche per la fondamentale indipendenza dello Stato svizzero – quasi in risposta al polverone che il suo caso avrebbe presto sollevato in patria.
Di fatto, l’epilogo inevitabilmente tragico della vicenda costituisce a tutt’oggi un capitolo alquanto controverso, a causa di quello che viene percepito come il palpabile imbarazzo della nazione svizzera – la quale, sia prima che durante la guerra, si trovava certo in una posizione difficile: Stato di dimensioni ridotte, collocato nel centro d’Europa e direttamente confinante con la Germania, era fin troppo esposta ad attacchi che avrebbero potuto minarne la fragile neutralità. Così, il gesto di Bavaud venne condannato dall’ambasciatore svizzero a Berlino Hans Frölicher, e la Confederazione finì per abbandonare lo studente al proprio destino, addirittura rifiutando uno scambio di prigioneri proposto dal Reich. Il 14 maggio 1941, all’alba, Maurice venne infine ghigliottinato nella prigione di Plötzensee: aveva 25 anni.
Oggi, dell’atto disperato – eppure, al contempo, lucidissimo – del giovane teologo rimane un ricordo per molti versi «scomodo», almeno in terra elvetica; e chissà se lo stesso Bavaud avrebbe mai immaginato, a distanza di ottant’anni, di divenire una sorta di folk hero, ufficialmente riabilitato dal Consiglio federale soltanto nel 2008, grazie anche ai continui sforzi del padre Alfred e, in seguito, del fratello Adrien.
Tuttavia, laddove molti ferventi oppositori del regime hitleriano sono stati, negli ultimi decenni, esaltati nella memoria storica collettiva, lo schivo studente svizzero è a lungo rimasto pressoché dimenticato – forse per via dell’apparente mancanza di «epicità» del suo tentativo solitario, compiuto quasi sottotono, senza alzare la voce; secondo uno stile che, in fondo, si confaceva al proprio ruolo di sincero idealista – così come il suo silenzioso congedo, solo e ignorato dai più, in quella lontana alba di tanti anni fa.