Tra le limitazioni della libertà personale a cui si è soggette per il semplice fatto di essere donna ce n’è una particolarmente potente, di cui non si parla mai abbastanza: bisogna mangiare poco. Certo, si sa quanto questa imposizione sia pericolosa, ne sono una prova tragica ed evidente i disturbi alimentari che non solo distruggono l’adolescenza di moltissime ragazze e anche di ragazzi, ma possono condurre alla morte. Non è questo, però, ciò su cui si sofferma Lara Williams nel suo romanzo d’esordio Le divoratrici, definito dal «The Guardian» e dal «Time» libro dell’anno, tradotto da Dafne Calgaro e Marina Calvaresi per Blackie Edizioni.
L’autrice inglese non parte dal presupposto, certo sacrosanto, di denunciare l’ingiustizia di criteri di bellezza o meglio di accettabilità che sono tutti tarati sulla magrezza, racconta del piacere non solo di mangiare, di preparare il proprio cibo, ma anche dell’essere pesanti, perché sostanziose.
La protagonista de Le divoratrici si chiama Roberta. Le lettrici e i lettori conoscono la sua storia fin dalle origini: l’abbandono del padre, un’infanzia trascorsa con la madre, la zia e la cagna Giovanna D’Arco. Il racconto si concentra però soprattutto su due momenti della vita della protagonista, quello del college e quello del presente della narrazione, che corrisponde a qualche anno dopo la fine dell’università. Il romanzo si conclude, infatti, con il trentesimo compleanno di Roberta.
Quando va al college e quindi si trasferisce in una città che assomiglia molto a Londra, Roberta è soprattutto una ragazza timida, che non ha certo facilità a instaurare amicizie, perché pensa sempre che passare del tempo con lei non sia desiderabile. Questo timore è al centro della sua esperienza di condivisione della casa con altre studentesse e studenti all’università ed è anche una delle ragioni per cui fin da subito per tenersi occupata e per godere, Roberta cucina, dedica una buona parte del suo tempo di solitudine alla preparazione di pietanze, che poi consuma quasi sempre da sola.
Fino a quando non incontra Stevie. La conosce al lavoro, vanno a vivere insieme, Roberta non rinuncia mai all’angoscia di non essere abbastanza per lei, ma Stevie non la abbandona. Insieme progettano il Supper Club. Invece dei più classici circoli di lettura, si tratta di riunioni alimentari, di momenti condivisi fra donne in cui l’unica cosa davvero importante è sfamarsi, togliersi finalmente tutto l’appetito.
Per scegliere le donne che possono far parte del Supper Club Roberta e Stevie fanno delle interviste: «qual è la tua più grande paura?». Le storie delle componenti del club sono varie: ci sono donne etero, lesbiche, transgender. Ciò che le accomuna è avere vissuto costrette da un senso di inadeguatezza radicale, guidate dalla necessità di correggere ogni giorno, ogni momento, l’errore fondamentale della propria femminilità. Un errore non definito, multiforme, incorreggibile in fondo. Per questo, limitare i danni riducendo le dimensioni del proprio corpo, lo spazio occupato al mondo, è il minimo che le donne possano fare.
Non al Supper Club. Nelle serate organizzate da Roberta e Stevie, prima in un ristorante affittato e poi in locali occupati abusivamente, il cibo molto spesso raccolto dai cassonetti dell’immondizia e trasformato in manicaretti esotici, è una forma di ribellione. A differenza, però, delle rivendicazioni sacrosante e inevitabili che le donne devono portare avanti ogni giorno per garantire spazio alla propria voce, per avere trattamenti salariali equi, per mantenere o ancora conquistare il diritto all’aborto e molto altro, al Supper Club c’è spazio solo per il piacere. Durante quelle serate le protagoniste si insozzano, esagerano, vomitano, ballano, si drogano, mangiano a più non posso, si oppongono a qualsiasi morigeratezza, preservazione della forma fisica, del contenimento che la maggior parte delle donne del mondo occidentale, e non solo, persegue in modo così connaturato da farlo inconsapevolmente. Si tratta di norme incastonate da qualche parte, fra una costola e l’altra…
Lara Williams, però, non si sofferma sul coraggio e quindi sullo sforzo necessario per ribellarsi a queste norme. Mangiare, avere peso, avere corpo, è anzi forse l’unica forma di serenità, il buon dato di fatto nella vita di Roberta: «dicono che quando muori, è la fame che se ne va per prima».