Non amava la letteratura sentimentale né quella autobiografica, ma neanche i romanzi di intreccio e i racconti di genere. Angelo Guglielmi, nato ad Arona nel 1929 e morto a Roma la scorsa settimana, era rimasto fedele alla sua prima matrice: quella promossa dalla neoavanguardia degli anni 60 a cui partecipò da protagonista, accanto a Umberto Eco, a Edoardo Sanguineti, a Nanni Balestrini e ad altri. Era uno degli ultimi critici radicali, che avevano fiducia nella letteratura come invenzione di forme, di strutture, di stile, di linguaggi. Aveva un’idea antagonistica di letteratura, l’opposto dell’adesione alla realtà: per questo fu tra i primi a squalificare il neorealismo e a condannare ingiustamente Bassani e Cassola come «Liale del ‘63». Non che i contenuti fossero da ignorare, ma secondo lui non erano i tratti caratterizzanti della letteratura. Il massimo, per Guglielmi, era Carlo Emilio Gadda, che rovesciò i suoi malumori dentro una scrittura tutta sua, non riconducibile ad altre esperienze: accanto a Gadda, tra i suoi preferiti c’erano Tommaso Landolfi e l’«incomprensibile» Giorgio Manganelli, il grande manierista che intendeva la letteratura come menzogna. Per Guglielmi il romanzo era uno strumento di scoperta e di conoscenza del mondo attraverso la lingua.
Guglielmi ebbe due grandi interessi. Il primo fu la letteratura, a cui si dedicò come critico militante per diversi giornali, attento ai libri via via che uscivano. L’altro fu la televisione, per cui lavorò sin da giovanissimo come funzionario e poi come direttore di RaiTre dal 1987. Da direttore, Guglielmi ruppe con l’impostazione pedagogica delle origini. La neotelevisione per lui non era un «nastro trasportatore» di teatro, musica, cultura, cinema. La sua «tv verità», come fu battezzata, doveva essere da un lato un grande romanzo popolare che raccontava, appunto, la realtà fino ad allora tenuta nascosta dal varietà e dai telequiz. Chi l’ha visto? è una sua fortunatissima invenzione, come la rubrica di Corrado Augias Telefono giallo, dove si ricostruivano i grandi misteri giudiziari contemporanei. E però, d’altro canto, la sua neotelevisione era anche un organismo sperimentale e satirico: la composizione spiazzante di Blob è una geniale creatura sua e di Enrico Ghezzi, e da lui nacque l’idea di lanciare Piero Chiambretti con Il portalettere. Fatto sta che da rete minoritaria, legata al Partito comunista secondo la più sfacciata delle lottizzazioni, RaiTre divenne un luogo di culto, un laboratorio di formule sempre nuove: «il nostro impegno puntava sulla continua sorpresa, convinti che le attese si creano deludendole», scrisse Guglielmi molti anni dopo. Da quel progetto era nato un litigio epico con Giorgio Strehler, che pretendeva dalla tv di Stato la trasmissione tradizionale del teatro, mentre Guglielmi sosteneva che la tv doveva essere produzione autonoma di linguaggi, di generi e di stili. Aveva uno strano carattere, tra rigidità ed estrema apertura, Guglielmi, fiero delle sue intuizioni come dei suoi errori.
Tra i tanti, un suo libro molto bello è Sfido a riconoscermi, che rendeva omaggio al suo Gadda, ma soprattutto raccontava, lui ostile all’autobiografia, il sé stesso bambino a Roma, figlio di un ferroviere, era sempre in movimento e di corsa, piccolo di statura, bugiardo incallito, magrissimo e affamato, sgobbone e un po’ tracotante sin da ragazzino, coltivava la sensazione perenne di dover inseguire qualcuno e qualcosa come in una corsa a handicap: lo vediamo a cinque anni vagabondare in solitudine da un quartiere all’altro della Capitale e a sette anni prendere il treno da Roma per raggiungere, del tutto indesiderato, una zia ricca in Puglia.
È il gusto della scorribanda, lo stesso che mise a frutto come critico: oltre a odiare l’autobiografia, Guglielmi detestava la critica accademica, portato com’era a sorvolare i testi, assaporarli, leggerli e interpretarli per forza di intuizioni piuttosto che per analisi in profondità. Idiosincratico, si direbbe, e diretto nei giudizi: non bisognava parlargli di Pasolini (apprezzava solo Petrolio), né di Eco narratore («adottatore di romanzi»), Arbasino era un suo gradito compagno di strada tranne quando «faceva il verso a sé stesso», non amava la «rigidità ideologica» di Sciascia e non salvava Moravia. Come Montale, preferiva dichiarare ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Non erano molti gli autori di oggi su cui scommetteva a occhi chiusi. Tra questi, Michele Mari e Antonio Moresco. Trent’anni di intolleranza (la mia) è un suo titolo significativo.