Attila ridesta l’Italia

Inaugurazione di stagione al Teatro alla Scala con Attila di Giuseppe Verdi
/ 17.12.2018
di Sabrina Faller

L’inaugurazione della stagione lirica alla Scala è sempre un evento. Ma da qualche anno a questa parte il Teatro milanese è riuscito a trasformare questo evento in una sorta di momento di riscatto nazionale. Nei giorni che precedono il 7 dicembre giornali e televisioni intraprendono il fitto percorso di copertura mediatica, raccontando cosa succede dietro le quinte e chi sono i protagonisti, prendono il via eventi collaterali, incontri, conferenze, mostre, la città si illumina di luci prenatalizie e si stringe intorno al suo teatro. Finché i riflettori si accendono sul foyer, sulla sala ricolma di gente ricca, ma anche sulle migliaia di persone davanti ai televisori – la Rai da un paio d’anni recupera la «diretta» sul primo canale – e nei cinema, gli occhi si inumidiscono all’ascolto dell’inno nazionale, gli applausi al presidente non finiscono mai: è il riappropriarsi per un momento di quella fulgida italianità raccolta in uno dei frutti più straordinari della cultura occidentale, il melodramma, il sentirlo finalmente e davvero ancora oggi parlante e palpitante.

Tutto ciò, nell’attuale momento storico di transizione, di incertezza e precarietà, in cui i valori antichi sembrano offuscati e quelli nuovi non ancora nati, tutto ciò – dicevo – restituisce la memoria e la consapevolezza di un passato glorioso, costruttore dell’identità di un popolo anche attraverso la musica. E questo bene prezioso, questo riconoscimento identitario, dura forse un giorno, per poi disperdersi subito nella quotidiana confusione e smemoratezza.

Quest’anno, forse ancor più che negli anni passati, la «prima» alla Scala con Attila di Giuseppe Verdi è stata vissuta dal pubblico intensamente, speranzosamente, orgogliosamente. Non è un mistero che con la gestione Pereira-Chailly la Scala persegua un cammino di riscoperta e rivalorizzazione del patrimonio ottocentesco italiano, dal cosiddetto verismo al Verdi meno noto e meno rappresentato. Attila, nona opera dell’operista trentatreenne, è uno di questi titoli, in realtà non poi così assente dai palcoscenici italiani e non, dove è ancor viva la memoria di Samuel Ramey, magnifico titolare del ruolo negli anni Ottanta e Novanta, e della storica rappresentazione del 2010 ad Aquileia.

Per quanto ho visto, questo Attila scaligero è il primo allestimento collocato in un tempo diverso dallo svolgersi dell’azione. E meno male: occorreva che qualcuno trasportasse in un tempo vicino quest’opera giovane e già bellissima fin dal preludio al prologo. Non tutti d’accordo sull’operazione, naturalmente, ma il regista Davide Livermore, convinto che «la rivoluzione sociale si fa nei teatri», ci restituisce un Attila della seconda guerra mondiale, tra rovine, camionette, in uno scenario da film neorealista, non si può non pensare a Roma città aperta.

Il cinema italiano degli anni d’oro è un riferimento costante, a partire dall’uso del bianco e nero iniziale, che si colora quando il riferimento è con la storia dell’arte, l’affresco di Raffaello che rappresenta l’incontro fra Attila e papa Leone I, o con il cinema di un’epoca più vicina a noi, il Visconti della Caduta degli dei e soprattutto la Cavani del Portiere di notte, ma qualcuno pensa anche a Salon Kitty o a Cabaret. L’uso del video è pertinente e convincente. E in questa cornice grandiosa da kolossal cinematografico trovano collocazione i protagonisti «rivisitati» in abiti moderni.

C’è un Attila teatrale, sensuale, decisamente «simpatico» – è lui che mostra al generale romano quanto rovinosa e immorale sia la politica del compromesso – e quell’Attila ha la voce e la presenza del fascinoso basso russo Ildar Abdrazakov, nato ad Ufa, come il grande Rudolf Nureyev. Non è il suo primo Attila, e non è nemmeno il suo primo 7 dicembre, ma il suo momento è ora. Belle le voci della pur gelida Odabella (Saioa Hernàndez) e di Foresto (Fabio Sartori) pur privo di physique du rôle, e il generale romano Ezio è l’eccellente George Petean. In breve, un cast quasi ottimo. E un Riccardo Chailly commosso e trascinante, compreso del proprio ruolo in un teatro che si riafferma oggi più che mai luogo di confronto, di dibattito, di ricerca e di riscoperta delle proprie radici. In una parola, luogo d’incontro della società civile. Attila è in scena alla Scala fino all’8 gennaio.