Antropologia lirica

Poesia - I nuovi versi di Guido Mattia Gallerani indagano il passato alla ricerca dell’essenza e delle caratteristiche fondamentali della razza umana
/ 19.07.2021
di Guido Monti

«Si credeva la creatura più speciale, / ma era solo il più giovane / tra gli abitanti effimeri del mondo. / … / fuggiva dietro le sue frecce / l’orso bruno, il Grizzly. // … / Da cacciatore a vittima, / dietro le teche di un museo / raffermo nelle sue requie / di cera e tende di cartone / … / con la sua cena ancor lì / … / imbalsamata nella formalina». Ecco uno stralcio della poesia Uomo di Neanderthal presente nella nuova raccolta di Guido Mattia Gallerani, intitolata I popoli scomparsi (peQuod editore, euro 15) che già ci dice molto sul senso e la direzione di questo libro, prefato da Mimmo Cangiano.

Tra le pagine difatti rintoccano chiare, talvolta cupe, le campane del tempo di ogni popolo, ad ogni battito un’etnia appare sulla terra, vi soggiorna e poi scompare e certamente si è presi nei versi, da questa itinerante evoluzione dell’umano, che talvolta trasborda in involuzione e che dal quaternario come una formichina testarda, si arrampica sui rami dei giorni. Ecco allora risuonare il pensiero del grande antropologo francese Claude Levi Strauss, il quale affermava che «l’etnologo registra un battito mai lo spiega» e Gallerani questo fa: un resoconto antropologico, che cammina però non solo sulla tavola delle scienze esatte ma su quella propriamente estetica del verso, che con la sua scossa di senso riempie di significazioni ulteriori il cammino dell’Homo sapiens: «… / scesero in profondità, / seguendo l’odore delle falde / … / imbastendo cisterne d’acqua / e grotte sepolcrali, antri / in cui nei secoli futuri / tra la rete dei cunicoli sommersi / sarebbero entrati i poveri / scacciati da ogni letto, / … / i perseguitati dalle leggi successive, / … / ma anche dopo le bombe, / i piedi e le mani, i crani / di persone moltiplicatesi / sottoterra, in specie diverse /».

Tanti popoli si muovono nelle pagine, dai Sumeri ai Cimmeri, dai Piceni ai Vichinghi, alcuni sembrano con le loro complesse culture, proiettarsi verso un punto indistinto del futuro, altri invece muoversi più in una circolarità sempre uguale a se stessa. Dalle prime grandi civiltà della Mesopotamia, dell’Indo, dell’Egitto, Gallerani risale all’epoca romana, sino al basso medioevo e ancora a quelle popolazioni delle Americhe centrali e del sud che nel loro isolamento tengono ancora traccia del neolitico che fu; molte sterminate già nel secolo scorso, attraverso repentini e predatori interventi sui territori.

Il poeta ci fa intendere quindi, che gli atti di coazione verso i deboli o le minoranze, sono variegati e attuati non solo dalle comunità che ci hanno preceduto ma anche da quelle moderne che si dicono portatrici di diritti di eguaglianza e libertà. E difatti in esse fioriscono, come reazione alle nuove sottese linee guida imposte dalle tecnologie di massa, gruppi di protesta che utilizzando codici comportamentali ben precisi, sottolineano una propria lontananza irreversibile ai nuovi modelli di sviluppo ritenuti insostenibili. Ecco allora nella pagina legarsi per paradosso gruppi identitari così lontani anche geograficamente, come gli Yanomami abitanti dell’Amazzonia e i punk, ma così vicini nella strenua resistenza alle economie e culture dominanti: «… // Accorpati alla classe dei nemici / a uno a uno li cacciarono / dal teatro urbano, molti ne dilaniarono / i dobermann dell’unità cinofila. // Furono fatti esplodere / in bulbi di luce venosa / dai pugni e dai calci / di Ken il guerriero. / …».

Ma Gallerani altresì, accompagnando sulla soglia poetica le tante civiltà, ha preso per mano anche i loro miti che in verità non sono mai impermeabili l’uno l’altro, anzi sembrano parlarsi in una metastoria che davvero ci riguarda, illuminando le tenebre di quelle caverne da cui tutti veniamo. Ecco la storia del mito è anche quindi la storia raccontata da questo libro: cos’è il mito?

Quale il suo significato? sembra domandarsi il risvolto di ogni verso; in fin dei conti quando ci avviciniamo ad esso, anche se proveniente da un popolo lontanissimo dalla nostra cultura, ecco che ci commoviamo. Il sentimento estetico che ci viene, leggendo un mito, è appunto questo: un accesso immediato a una intelligibilità delle cose del mondo, non ragionata ma provocata appunto da una scossa emotiva.

Ed ecco allora camminare sottotraccia nel libro, l’ulteriore e risolutivo corollario: cos’è il bello? problema che la filosofia discute da secoli e che sembra non aver risolto: «… // Qualcosa di loro sopravvisse, / tra le avanzate e ritirate nel disordine, / nei cerchi disegnati… / dagli inseguimenti cavallereschi / dei biplani,… / nelle picchiate e nei tuffi nel vuoto / con cui precipitarono in fiamme / quei primi eroici aviatori /».

Ed allora il poeta iniziando dal Neanderthal, immesso anch’esso oramai in un più ampio mito, si congeda con una immagine visionaria, pensando anche noi lettori, imbalsamati nella teca del museo che verrà, innanzi a spettatori il cui sguardo però non ci sarà dato scrutare. E il titolo di questo libro, I popoli scomparsi, ci lascia il brivido di un ultimo interrogativo: il significato, inteso nel senso più ampio, è interno all’uomo o l’uomo è dentro un significato?

Laicamente Guido Mattia Gallerani sembra sposare la prima opzione: la nozione di significato va di pari passo con l’uomo, alla sua scomparsa, anche tal nozione svanirà.