Lo sguardo viaggia nel tempo, lontano, verso la metà del Trecento quando la peste bubbonica dilagò per tutta Europa lasciandosi dietro milioni di morti. E anche la Svizzera pagò il suo triste tributo come ci ricorda il romanzo del bernese Lukas Hartmann, La pestilenza, del 1992, che l’editore Armando Dadò propone ora nell’ottima versione di Gabriella de’ Grandi. Ma lo scrittore si volge al passato per riflettere sulle epidemie del nostro tempo come l’AIDS iniziato verso gli anni Ottanta. E leggendolo ora dobbiamo purtroppo aggiornarlo con la drammatica esperienza del Covid-19 che ci conferma come la storia dell’umanità sia costantemente segnata da tali flagelli che l’arte stessa ha spesso richiamato, a cominciare dal Decamerone di Boccaccio con le immagini della peste fiorentina, e in pittura dal motivo ricorrente della «danza macabra».
Hartmann non è nuovo ai temi storici. Il suo primo romanzo, La montagna di Pestalozzi, scritto nel 1978 a trentaquattro anni, era ambientato alla fine del Settecento. Poi, con La pestilenza, come ci ricorda puntualmente Charles Linsmayer nella postfazione, prenderà il via «la serie dei romanzi di Berna», otto volumi in cui l’autore si muove fra il secolo dei Lumi e gli anni del nazismo. Nel frattempo questo poliedrico intellettuale, marito di Simonetta Sommaruga, consigliera federale, ha svolto il suo lavoro quotidiano come giornalista radiofonico e assistente sociale molto attivo a favore dei profughi, senza tralasciare la narrativa per l’infanzia a cui, fin dal 1984, ha dedicato ben 14 libri. Interessi e prospettive diverse che aggiungono vigore alle sue pagine nutrite di consapevolezza e impegno umano. Proprio allora, in occasione dell’uscita del suo romanzo, ebbe a dire in un’intervista: «La mia è una requisitoria contro l’indifferenza e la tentazione di rimanere ciechi e sordi alla sofferenza altrui».
Non è un caso che la storia della giovane Hanna e di suo fratello Mathis, novizio nel monastero di Rüeggisberg, contenga inserti legati alla diffusione dell’AIDS, la peste moderna, e all’uso di droghe. Sprazzi che non interrompono la narrazione dell’infelice esodo dei due fratelli dal loro villaggio, ma la inseriscono in un’ampia riflessione sull’infelicità e l’umano dolore nel corso dei secoli.
E dire che in quel paesino nel Canton Berna con il suo antico priorato cluniacense la giovane ragazza viveva felicemente con la nonna Hedwig, guaritrice ed esperta di erbe. Ma l’epidemia cancella ogni speranza e strappa anche Mathis alla vita del convento dove i monaci scompaiono uno dopo l’altro. «Il mondo è nel caos», ricorda l’autore e il suo libro ne tratteggia con insistente realismo la cupa disperazione. Il morbo vola di casa in casa e nella grande città, a Berna, i morti giacciono per le strade. Anche la nonna muore e i ragazzi decidono di andarsene rifugiandosi dapprima nel bosco, dove una natura intatta e generosa offre conforto mentre inavvertitamente sboccia fra di loro, in preda allo smarrimento, un amore sensuale, atto estremo di vita libero da ogni censura morale di fronte alla violenza della pandemia. Poi, per un po’ vivono in una grande capanna nella foresta, accolti dalla famiglia di un pellicciaio, dove Hanna cura un bimbo ferito e Mathis narra leggende di santi e si purifica con la preghiera e un severo digiuno. Ma dopo la morte del bimbo vengono scacciati e s’imbattono in una processione di flagellanti, una massa di fanatici che imprime con inni e invocazioni un ritmo incalzante e spezzato al racconto.
Mathis, sedotto dalle parole del «maestro» che guida il corteo, sente rinascere in sé l’entusiasmo religioso, si unisce al popolo salmodiante e accetta di far penitenza flagellandosi, mentre Hanna lo segue confusa e inebetita. È perfino disposto a credere che tutto quel flagello sia opera degli ebrei, come sostiene quella fiumana di invasati iniziando una caccia al giudeo che poi si estenderà a tutta la città. Sembra di ripercorrere qui le terribili pagine del romanzo di Wilhelm Jensen, Gli ebrei di Colonia del 1869, ambientato nel medioevo tedesco, dove alla peste nera si univa il flagello dell’antisemitismo.
I dolorosi eventi inducono più tardi Hanna, giunta ormai a Berna con gli altri, a rivolgere un accorato appello a Dio nella chiesa di San Vincenzo: «Lasciami libera – invoca – sciogli la catena invisibile che mi lega a questi uomini». La sua attesa prefigura il motivo di fondo del romanzo: liberarsi dal male e riacquistare la speranza e l’innocenza della vita. Ma intanto è vittima di incubi notturni: sogna uomini che la inseguono, sé stessa trasformata in serpente, il maestro che la fustiga o il fratello con una terribile ferita da cui fuoriescono formiche e infine l’incendio universale. L’inconscio sembra suggerire in modo fantasioso la tragica realtà in cui, ormai sola, Hanna si dibatte.
Hartmann sa ricreare atmosfere di profonda e drammatica intensità trasfigurando gli eventi in sensazioni, in palpitante sostanza umana. Il destino del singolo e quello di un’intera comunità degenerano apparentemente senza spiragli di salvezza. La giovane passa dalla casa di un pescatore a quello di un ricco possidente, il signore di Gysenstein, la cui moglie è gravemente malata. Accetterà di curarla, ma senza successo. E con la donna scompare anche uno dei figli, Samuel, mentre il padre, fuori di senno, si uccide. Per fortuna è sbocciato un profondo affetto fra lei e la piccola Hildi, sorella di Samuel.
Certo la situazione degenera di giorno in giorno al punto che il Consiglio della città di Berna decide la chiusura di tutte le case in cui è scoppiato il morbo. L’idillio degli anni lontani si è inabissato in una realtà infernale, così come il ricordo della nonna e del suo amatissimo Mathis, ombre sconvolgenti che si vorrebbe poter sotterrare in pace come i morti. Ma in cielo le nubi sembrano vestirsi di nero e in lontananza si odono i tuoni, gli ultimi botti di sogni infranti. Sì, il mondo è nel caos, ma Hanna si guarda intorno e intuisce che la piccola Hildi è forse l’immagine di quel futuro che ancora non ha smesso di sognare. La solleva, la fa volteggiare, canta con lei e si sente finalmente libera. E che ne è di quel mondo terribile che la circonda?
Potremmo intuirlo grazie alle parole di Lukas Hartmann che ci riporta attraverso una pandemia medievale ai giorni nostri, al flagello del Covid-19: «Siamo costretti a riconsiderare molte cose con occhi nuovi – egli afferma – a mettere in discussione le nostre abitudini. (…) l’uomo è rimasto uguale nella sua volontà di sperare, come pure nelle sue paure e nell’attribuire colpe. Sono convinto che le conseguenze del lockdown cambieranno la nostra società. Se in meglio o in peggio, è tutto da vedere».