Antiche pandemie

Letteratura/2 - Tucidide e la peste di Atene (parte I)
/ 16.11.2020
di Elio Marinoni

È allo storico ateniese Tucidide che si deve la più antica, più dettagliata e più rigorosa descrizione di una pestilenza in un testo in prosa: l’epidemia di peste che scoppiò ad Atene nella tarda primavera o all’inizio dell’estate del 430 a.C., nel secondo anno della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.). Tucidide, che ci ha lasciato negli otto libri delle sue Storie la narrazione dei primi venti anni di quel conflitto (431-411), dedica alla peste di Atene un’ampia sezione del secondo libro (II, 47,3 – II, 53). Riporto dunque il racconto tucidideo nella bella traduzione italiana di Ezio Savino.

«II. 47.3. [I Peloponnesii e i loro alleati] Si trovavano in Attica da non molti giorni, quando prese a serpeggiare in Atene l’epidemia: anche in precedenti circostanze s’era diffusa la voce, ora qui ora là, che l’epidemia fosse esplosa, a Lemno, per esempio, e in altre località. Ma nessuna tradizione serba memoria, in nessun luogo, di un così selvaggio male e di una messe tanto ampia di morti. 4. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso agli oracoli e altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci: desistettero da ogni tentativo e giacquero, sopraffatti dal male.

48.1. A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia, al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del Re. 2. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per prima la gente del Pireo. Sicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesi, inquinando le cisterne d’acqua piovana con veleno: si era ancora sprovvisti d’acqua di fonte, laggiù al Pireo. Ma il contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi, irrefrenabile. 3. Ora, chiunque, esperto o profano di scienza medica, può esprimere quanto ha appreso e pensa sull’epidemia: dove si possa verosimilmente individuare il focolaio infettivo originario e quali fattori siano sufficienti a far degenerare con così grave e funesta cadenza la situazione. Per parte mia, esporrò gli aspetti in cui si manifestava, enumerandone i segni caratteristici, il cui studio riuscirà utile, nel caso in cui il flagello infierisca in futuro, a riconoscerlo in qualche modo, confrontando i sintomi precedentemente appurati. La mia relazione si fonda su personali esperienze».

L’autore sottolinea (47.4) la novità del morbo e l’impotenza della medicina e di ogni altra «scienza o arte umana» (anthropeía téchne) di fronte ad esso: l’espressione ricorda da vicino i vv. 170-171 dell’Edipo re di Sofocle, e non è escluso che tra i due testi ci sia un legame di interdipendenza.
L’epidemia si diffonde dapprima nella zona del porto di Atene. I Peloponnesi, cioè gl’invasori, sono accusati di esserne gli «untori» (48, 2).

Tucidide ritiene che la descrizione del quadro sintomatologico, compiuta conformemente al metodo ippocratico, possa tornare utile in futuro. È la stessa idea di utilità per l’avvenire che l’autore applica all’intero lavoro storiografico, concepito come un «possesso per sempre» (ktêma eis aeí). Il capitolo si chiude con uno dei rarissimi riferimenti autobiografici delle Storie tucididee (48.3).

«49.1. Quell’anno, a giudizio di tutti, era trascorso completamente immune da altre forme di malattia. E se qualcuno aveva contratto in precedenza un morbo, questo degenerava senza eccezione nella presente infermità. 2. Gli altri, senza motivo visibile, all’improvviso, mentre fino a quell’attimo erano perfettamente sani, erano dapprima assaliti da forti vampe al capo. Contemporaneo l’arrossamento e l’infiammato enfiarsi degli occhi. All’interno, organi come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava irregolare e fetido.

3. Sopraggiungevano altri sintomi, dopo i primi: sternuto e raucedine. In breve il male calava nel petto con violenti attacchi di tosse. Penetrava e si fissava poi nello stomaco: da qui nausee frequenti, accompagnate da tutte quelle forme di evacuazione della bile che i medici hanno catalogato con i loro nomi. In questa fase le sofferenze erano molto acute. 4. In più casi, l’infermo era squassato da urti di vomito, a vuoto, che gli procuravano all’interno spasimi tremendi (...).

5. Al tocco esterno il corpo non rivelava una temperatura elevata fuori dell’ordinario, né un eccessivo pallore: ma si presentava rossastro, livido, coperto da una fioritura di pustolette e di minuscole ulcerazioni. Dentro, il malato bruciava di tale arsura da non tollerare neppure il contatto di vesti o tessuti, per quanto leggeri, di veli: solo nudo poteva resistere. Il loro più grande sollievo era di poter gettarsi nell’acqua fredda. E non pochi vi riuscirono, eludendo la sorveglianza dei loro famigliari e lanciandosi nei pozzi, in preda a una sete insaziabile. Ma il bere misurato o eccessivo produceva il medesimo effetto.

6. Senza pause li tormentava l’insonnia e l’impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in cui la virulenza del male toccava l’acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai patimenti: sicché in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno, per effetto dell’interna arsura, mentre il malato era ancora discretamente in forze. Se invece superava la fase critica, il male s’estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da una violenta diarrea (...).

7. La malattia, circoscritta dapprima in alto, alla testa, si irradiava in seguito percorrendo tutto il corpo, e se si usciva vivi dagli stadi più acuti, il suo marchio restava, a denunciarne il passaggio, almeno alle estremità. 8. Ne rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei piedi e delle mani: molti, sopravvivendo al male, perdevano la facoltà di usare questi organi, alcuni restavano privi anche degli occhi. Vi fu anche chi, riacquistata appena la salute, fu colto da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stesso e dei suoi.

50.1. Il carattere di questo male trascende ogni possibilità descrittiva: non solo i suoi attacchi si rivelavano sempre più maligni di quanto le difese a disposizione della natura umana potessero tollerare, ma anche nel particolare seguente risultò che si trattava di un fenomeno profondamente diverso dagli altri consueti: tutti gli uccelli e i quadrupedi che si cibavano di cadaveri umani (molti giacevano allo scoperto) questa volta non si accostavano, oppure morivano, dopo averne mangiato».

La descrizione dei sintomi, annunciata da Tucidide alla fine del capitolo 48, occupa l’intero cap. 49 e rivela l’influsso, molto forte in questa sezione ma presente anche altrove nella sua opera, del metodo ippocratico. Particolarmente interessanti l’accenno alle patologie pregresse, che facilitavano l’insorgenza della pestilenza (49,1; cfr. anche 51.1) e quello alla possibilità di danni permanenti nei sopravvissuti al morbo (49,7-8).