In un’immagine proposta alla Casa Pessina, l’apparecchiatura fotografica – con tanto di tripode simile a quello di una mitragliatrice – è bell’e sistemata. Sembra davvero un’arma pronta a sparare, anche perché la spia rossa dell’autoscatto è accesa, è stata tolta la sicura. L’arma è puntata verso lo spettatore, non è rivolta verso ipotetici assalitori che dal basso potrebbero portar minaccia (sulla destra si vede la scaletta d’accesso) a questo luogo tranquillo e protetto, quasi ameno, in una bella giornata autunnale in cui però il sole già fatica a disegnare ombre davvero degne di questo nome. È un sagrato campagnolo? Chissà… Le domande che ci sorgono di fronte a questa immagine, magari irriverenti, ma spero interessanti, sono altre.
È un originale autoritratto di Anna Meschiari in absentia :«Fotografo, dunque sono»?
È l’espressione dell’irrealizzabile desiderio di comprendere ciascuno spettatore in un gigantesco camera look, con quell’obiettivo quasi minacciosamente puntato verso chi lo guarda?
È un’audace mise en abîme, una «storia nella storia» in cui ciò che ci appare a un primo grado di lettura (l’apparecchio fotografico) tenta di riassumere/comprendere alcuni aspetti della «storia» che la incornicia, che in questo caso sarebbe addirittura l’opera omnia di Anna?
E infine, domanda fondamentale, che cosa fotografa la giovane Meschiari?
Vecchio vezzo del critico – in generale – quello di porre domande. Vecchio vizio mio personale, temo ormai inguaribile, quello d’interrogare/rsi e di suscitare dubbi senza aver poi la presunzione di poter avanzare una risposta esaustiva e univoca. È indubbio tuttavia che Anna si prende la libertà di immortalare tutto ciò che riesce ad accendere il suo interesse, libera altresì di scegliersi la tecnica che più le sembra adatta (il suo curriculum non parla solo di fotografia tra analogico e digitale, ma anche di collages, installazioni video, ecc).
Risulta difficile anche cogliere, nel suo mare magnum, qualsiasi influenza di questo o quel grande maestro – altro vezzo del vecchio critico! Sarebbe in effetti un azzardo, più che un suggerimento, ricordare il lavoro di Josef Sudek di fronte al lussureggiante intrico di grandi foglie, sebbene il fotografo boemo preferisca affidarsi al bianco&nero; o quello del magiaro Laszlo Moholy-Nagy osservando i bicchieri volanti e la loro eterea scia. Se ci sono illustri colleghi che più di altri hanno colpito Anna Meschiari (e ce ne saranno senz’altro), non lo dà a vedere. La giovane artista ha saputo mantenere nel suo sguardo un’invidiabile purezza, apparentemente scevra da ogni influenza e che talvolta scivola persino nell’ingenuità.
Sempre in assoluta libertà, Anna ha scelto il titolo della mostra, A come Arcipelago. Perché – a rigore e con la Treccani à la main – il concetto vorrebbe veder uniti non solo e non tanto isole, ma anche gruppi o entità staccati sì gli uni dagli altri e però ancora in qualche modo legati attraverso affinità o contingenze: pensiamo al celebre Arcipelago Gulag. Vi sfido tuttavia a trovare un legame, un fil rouge di qualsiasi tipo tra le immagini presentate. Missione impossibile, perché l’esposizione è in realtà il suo personalissimo arcipelago.
Una mostra/viaggio attraverso i suoi archivi (ci sono foto che ha realizzato ben prima di diplomarsi in Fotografia alle Scuole di Arti Applicate di Vevey e di Berlino), concepita seguendo il procedimento che la giovane fotografa ha recentemente abbracciato, vicino alla fotografia concettuale: assemblare immagini ritrovate qua e là per creare qualcosa di nuovo, che non esisteva prima.