Altrisuoni, una scuderia di razza

Intervista a Dimitri Loringett, responsabile della casa discografica ticinese che l’anno prossimo festeggia 30 anni
/ 02.01.2023
di Alessandro Zanoli

La monumentale e imprescindibile Storia del jazz svizzero di Bruno Spoerri, l’ha fissata nelle sue pagine, a futura memoria, con queste parole: «Fin dagli inizi degli anni 90 l'etichetta ticinese Altrisuoni documenta non soltanto la scena musicale a cavallo del confine tra Svizzera del Sud e Italia del Nord. Il responsabile dell'etichetta (e flautista jazz) Christian Gilardi ha saputo costruire infatti continuamente ponti verso la Romandia e la Svizzera tedesca. Il programma editoriale persegue chiaramente il primato della qualità, ma oltre a questo Altrisuoni propone anche quantità: il numero delle loro produzioni è molto più alto di quello delle altre tre etichette svizzere (Intakt Records, For 4 Ears, Unit Records)».

Insieme ai suoi compagni di avventura Romano Nardelli e Stefano Franchini, Gilardi aveva messo in movimento un meccanismo dinamico e propositivo, capace di attirare l’attenzione doppia del pubblico e dei musicisti, in un circuito virtuoso che ha portato in effetti il numero delle produzioni ad aumentare in modo davvero notevole. Altrisuoni è stato indubbiamente un acceleratore della passione per il jazz alle nostre latitudini, tanto quanto lo sono stati Estival Jazz o JazzAscona. Oltre alla sua attività di editrice, la casa discografica, in una dimensione più di nicchia, si era fatta promotrice di piccoli ma interessanti festival in Ticino. Aveva portato i propri artisti a contatto con il pubblico e aveva contribuito a far conoscere anche qui da noi le migliori proposte nazionali. Oltre a questo, si è data fin dall’inizio il compito di promuovere la musica dei nostri esecutori e compositori ticinesi, in vari generi musicali, un obiettivo sicuramente unico e meritevole.

Oggi, nel pieno delle trasformazioni che hanno rivoluzionato il mondo della riproduzione musicale e della sua fruizione, che opportunità ci sono per Altrisuoni? Ne abbiamo parlato con Dimitri Loringett, responsabile dell’etichetta (nella foto).

A guardare le cose con occhio critico oggi non è proprio un momento favorevole per le case discografiche…
Sì, lo streaming ha modificato completamente le abitudini di ascolto. L’avvento dell’editoria digitale rende molto difficile riuscire a coprire le spese di produzione. A pensarci oggi, però, possiamo dire di essere stati i primi in Svizzera a intuire la direzione in cui stavano andando le cose; già nel 2006 abbiamo iniziato a collaborare con una casa di distribuzione digitale che si chiamava Big Fish Media (poi BFM Digital). Era stata fondata da appassionati di jazz e quindi alla fine avevamo un campo di interesse comune. Abbiamo firmato il contratto e dal 2007 abbiamo cominciato a distribuire il nostro catalogo in formato digitale. All’epoca non c’era ancora lo streaming, c’era il download; chi lo voleva scaricava il brano a pagamento. E man mano abbiamo messo quasi tutto il catalogo. Siamo stati tra i primissimi, forse tra i primi in Europa e comunque primi in Svizzera.

E poi come è andata?
Alla fine degli anni 2000 poi c’era la fila per andare da loro, tutti volevano vedere online i loro brani perché il digitale stava davvero prendendo piede. Noi abbiamo vissuto in pieno questo periodo, che andava in parallelo col calo delle vendite di CD. Poi nel 2009 è arrivata la crisi finanziaria e c’è stata un’accelerazione del digitale e, con l’avvento dello streaming, soprattutto una decrescita quasi esponenziale del fisico. Il periodo peggiore è stato tra il 2010 e il 2013, quando il nostro distributore fisico iniziò a farci pagare una «fee» (tassa base) per mettere in distribuzione le nostre nuove pubblicazioni. Per finire, la società chiuse i battenti, per fortuna avevamo già iniziato a lavorare con la romanda PBR Record, che ancora distribuiva il fisico e con cui poi abbiamo continuato a collaborare.

Sul mercato oggi possono sopravvivere solo i grandi distributori, pare…
Si chiamano «aggregator»: sono distributori in formato digitale. Tu gli mandi il contenuto (i file dei singoli brani), la copertina e loro distribuiscono sulle piattaforme. In pratica quello che faceva il distributore discografico loro lo fanno nel corrispettivo digitale. Noi ci siamo adattati: abbiamo cominciato a pubblicare dischi ma su richiesta dei gruppi. Una volta creato il disco, era poi compito degli artisti distribuirlo e venderlo. Certo, noi lo mettiamo in distribuzione, in catalogo, facciamo la pubblicità. Però oggi è principalmente l’artista che vende il CD, tipicamente ai concerti. Di fatto è cambiata la logica della distribuzione, completamente.

Da parte vostra c’è stata anche una modifica aziendale.
Altrisuoni, nel 2015 è stata ceduta alla società con la quale facciamo la distribuzione, PBR Record citata prima, oggi forse l’unico distributore fisico rimasto in Svizzera, che rifornisce i negozi, quei pochi che sono rimasti. PBR ha rilevato il catalogo, le edizioni e tutto quanto. E quindi si pubblica ancora, sempre come Altrisuoni. Le tirature, rispetto al passato, sono però limitate a 200-300 copie.

Voi comunque avete musicisti che vi cercano per fare i dischi.
Sicuro, la richiesta non è calata, anzi calcola che negli ultimi anni siamo a circa dieci-dodici album che vengono pubblicati all’anno. E ce ne sono sempre di più solo in digitale, nel senso che non c’è la stampa del cd, ma l’interesse è per l’etichetta. Perché se vai su iTunes o su Spotify e si vede che sei sotto Altrisuoni ispiri più fiducia.

Altrisuoni nel ’93 era nata come etichetta che dava spazio alle giovani leve: oggi?
C’erano allora, ci sono oggi. A essere cambiato in realtà è l’output, il risultato di questa passione. Molti sono consapevoli del fatto che i dischi non si vendono tramite le etichette, ma servono per avere quel minimo di credito per iniziare, e quindi fanno questo investimento perché torna loro utile, sanno che devono suonare per uscire e guadagnare. In Svizzera Altrisuoni (e tanti me lo dicono) è ancora l’unica in cui se chiami al telefono c’è qualcuno come me o come Bruno Pepe (il titolare di PBR Record) che ti risponde. Le altre non alzano nemmeno la cornetta.

Oltre ai giovani avete avuto anche grossi nomi.
Diciamo che il vero colpo di fortuna è arrivato agli inizi con il compianto Fredi Lüscher. Lui era un pianista abbastanza conosciuto nella scena più d’avanguardia svizzera. Il fatto che avesse deciso di venire con noi ha fatto rumore: il mercato discografico svizzero era abbastanza ingessato, c’erano tre-quattro etichette discografiche e quindi per molti artisti era difficile fare un disco perché non ti davano retta. Credo che Lüscher fosse un po’ stufo di questo sistema. Ha fatto un primo album e poi ha continuato sempre con noi: altri musicisti hanno cominciato a parlarne, così si è diffuso il nostro nome.

All’inizio vi siete identificati fortemente col jazz. Ma il jazz esiste ancora?
Si, decisamente. In Svizzera ci sono delle buone scuole e buoni musicisti che vogliono incidere.
In Ticino penso a Pianca e Romerio, a Borzacchiello, a Pezzoli, a Boggini e a Granati, di cui pubblicheremo prossimamente un nuovo disco. D’altro canto, è vero che non tutto va sull’etichetta, perché tanti giovani magari si arrangiano diversamente, vanno direttamente sul digitale, mettono in piedi la propria etichetta, fanno un po’ quello che facevamo noi all’inizio. Adesso i mezzi tecnologici sono alla portata di tutti. Dal punto di vista economico produrre un CD costa poco.

Una delle tue esperienze importanti è stata la produzione dell’album di Lewis Porter per la quale sei andato a New York…
Sono cose bellissime, ma costano parecchio. Lì ho toccato con mano cosa significa produrre un album di livello internazionale. Abbiamo pagato lo studio e i musicisti, gente di altissimo valore come John Patitucci e Terri Lynn Carrington. C’è un video su YouTube di qualche momento della produzione. Alla fine, è funzionato tutto. Ma non sono cose che si possono fare tutti i giorni.