Una delle caratteristiche che hanno sempre distinto e, in fondo, perfino definito la scena musicale indie (diminutivo di «independent») è senz’altro quella della sua natura relativamente «di nicchia» – motivo per cui, negli States, la maggioranza dei suoi esponenti non può ambire a raggiungere le vette di popolarità a cui le star del pop-rock mainstream sono abituate, e deve invece accontentarsi di un seguito, per così dire, «in chiave minore».
Grazie alla natura sfuggente e rarefatta del proprio lavoro, la formazione degli Other Lives rientra senz’altro in questa categoria di «illustri misconosciuti»: responsabile di una strana mistura tra suggestioni riconducibili al folk-rock d’autore e al cantautorato anni 70 (il tutto condito da reminiscenze pop-soul quantomeno démodé), il trio dell’Oklahoma può, del resto, definirsi una band piuttosto atipica. Caratterizzati da rarefatta introspezione e da uno sguardo nervoso quanto profondo sul sé e sulle umane vicende, i tre multistrumentisti di Stillwater hanno impiegato ben cinque anni per dare un seguito all’intrigante Rituals, loro terzo album; ma in questo lasso di tempo sono successe molte cose, dato che Jesse Tabish, frontman della band, ha lasciato la vibrante scena artistica di Portland per trasferirsi con la moglie Kim in una suggestiva quanto isolata «cabin in the woods» nelle montagne dell’Oregon.
La piccola casa in legno gioca infatti un ruolo prominente nella genesi di questo disco, inciso proprio in un salotto convertito in sala di registrazione: qui, in uno scenario reminiscente di Walt Whitman, il gruppo si è ritrovato immerso nell’ambiente e nella disposizione d’animo ideali a esplorare, in modo più analitico che mai, tematiche spesso dolenti e complesse – le cui radici affondano nella strana malinconia e nel senso d’irredenta libertà che le sterminate distese senza tempo dell’America più rurale e selvaggia hanno sempre offerto a chiunque cercasse un rifugio in cui dedicarsi all’esplorazione del sé.
Con questo For Their Love, gli Other Lives hanno quindi scelto di rinnegare il sound elettronico che aveva caratterizzato Rituals per avvicinarsi piuttosto a un proto-folk più diretto (addirittura eseguito quasi dal vivo), seppur comunque animato da orchestralità in stile cinematografico – nello specifico, da vibranti suggestioni alla Ennio Morricone; e hanno così prodotto un disco maturo e misurato, capace di passare con la massima disinvoltura da atmosfere opprimenti a momenti di struggente liberazione, i quali a tratti riecheggiano perfino la «British Invasion» di ormai mezzo secolo fa. Così, ecco che il brano certo più evocativo del CD, la straziante ballata We Wait, utilizza echi da film western anni 60 per rivestire la catartica rievocazione della grande tragedia vissuta da Tabish in gioventù – ovvero, la morte del suo amico e mentore Tommy per mano di un killer assoldato nientemeno che dalla moglie: «alcuni potranno chiamarlo destino, / ma io chino il capo e fuggo / non era altro che una mano su di una pistola (…) / E noi aspettiamo, aspettiamo che tu possa riposare».
Questo notevole sforzo narrativo traccia fin da subito la linea seguita da For Their Love: quella di un esericizio di cantautorato d’alto livello, pervaso da un equilibrio e sintesi pressoché perfetti tra testo e musica – tra la potenza evocativa degli arrangiamenti e l’evidente eccellenza lirica di Jesse e compagni.
La natura «ad alto voltaggio emotivo» del disco è così confermata dall’epica amarezza – a cavallo tra suggestioni tipicamente «lo-fi» e il miglior folk anni 60 – di Lost Day e Hey Hey I, magistrali singoli apripista dell’album; ma anche da brani rigorosi e taglienti quali Cops e Who’s Gonna Love Us. Da parte sua, lo scaltro Nites Out costituisce un esperimento in cui atmosfere gotiche da film horror d’altri tempi fungono da base per la claustrofobica narrazione di Tabish, a confermare come gli Other Lives debbano parecchio all’arte della colonna sonora. E se All Eyes e Sound of Violence preferiscono giocare la carta del flashback in salsa vintage, Dead Language addirittura restituisce l’eco di artisti quali Simon & Garfunkel, con una duttilità confermata dal toccante brano di chiusura del CD – la romantica ballata Sideways, reminiscente degli exploit dei colleghi The National e degna di entrare nelle migliori playlist «melanconiche» di sempre.
Di fatto, For Their Love riesce nella difficile impresa di coniugare assoluto rigore formale e innegabile potenza emotiva, toccando argomenti che spaziano dalla disillusione avvertita dall’artista davanti al fallimento della democrazia, fino al senso intrinseco della violenza. E proprio in momenti come questi subentra il rimpianto per il fatto che artisti di tale calibro siano destinati a rimanere perlopiù sconosciuti a quella maggioranza di pubblico affezionato ai fenomeni radiofonici da classifica – facendo così, di piccoli capolavori come quest’album, vere e proprie «gemme nascoste», da portare alla luce con pazienza e amore.