Alla ricerca della verità

In occasione de L’immagine e la parola, a Locarno hanno raccontato il loro lavoro e le loro visioni il regista Béla Tarr e il montatore Jacopo Quadri
/ 08.04.2019
di Nicola Mazzi

C’è chi cerca la verità attraverso lunghi piani-sequenza e chi invece usa le forbici (ora metaforiche, ma un tempo concrete) per suddividere la scena e trasformarla in altro, in una nuova verità, diversa da quella originaria. Due modi agli antipodi di fare cinema che hanno trovato spazio a L’immagine e la parola, la costola primaverile del Locarno Film Festival. Il primo è quello del regista ungherese Béla Tarr che ha parlato del suo modo di intendere il cinema. L’altro è quello del montatore italiano Jacopo Quadri, che ha lavorato per registi importanti come Bernardo Bertolucci e Gianfranco Rosi.

Tarr ha evidenziato come nel corso del tempo «il mio stile e il linguaggio sono diventati sempre più semplici, più puri». Ha pure affinato la propria sensibilità sociale e in questo senso spera «di avere acquisito una buona empatia con la gente». Ha ricordato, infatti, che cosa lo ha spinto inizialmente a fare cinema: «Quando avevo 16 anni andavo tutti i giorni a vedere un film, e tutti i giorni uscivo pensando che quello che vedevo era tutto falso, finto. Ora posso dirlo: non mi piace quando una persona recita, non mi interessa se un attore è un professionista o no, ho bisogno della presenza di una persona, di una personalità. Quando faccio i casting cerco una persona e non un personaggio, e se la persona che trovo è diversa da quella che avevo immaginato, allora modifico la storia. Ciò a conferma della sua costante ricerca di una verità estrema, che ha molto che fare con l’arte e ancora di più con la vita, ma non necessariamente con l’estetica della recitazione, anzi. Infatti non è il regista che dall’alto elargisce la lezione di cinema agli spettatori». No, lui non ama definirsi cineasta, «sono un essere umano che ha osservato il mondo e ha reagito di conseguenza».

Con il suo modo diretto, e non privo di ironia, di spiegare il cinema ha rivelato di non amare per niente le sceneggiature. «In realtà io credo servano solo ai finanziatori per raccogliere soldi e poi realizzare il film. Trovo noioso leggerle. Ciò non significa che nei miei film non esista una struttura drammaturgica, ma essa è scandita da appunti di poche parole su cartoncini che lasciano molta libertà a chi deve interpretare la scena».

Il regista ungherese si affida più che alla storia, ai luoghi e, come detto, ai personaggi che sono perlopiù attori non professionisti. E lo fa perché vuole far emergere la loro verità, che è data dalla spontaneità: provano infatti pochissime volte per mantenere, «l’attore vivo: se comincia ad annoiarsi, gli si spegne la luce negli occhi, e allora è finita».

Diversa, ma non meno interessante, l’esperienza professionale di Jacopo Quadri. Montatore di professione ha preferito usare il taglio per mutare la realtà e la continuità spazio-temporale dei piani-sequenza, che a lui – come dice – piace «fare a pezzi».

Durante la sua masterclass Quadri ha ricordato come il lavoro del montatore, in origine, fosse soprattutto molto artigianale: forbici e la colla avevano un ruolo fondamentale. «Il punto di taglio, quel preciso momento in cui decidi di cambiare immagine, era quasi sacro all’epoca della pellicola. Non potevi sbagliare sennò perdevi tempo e sprecavi fotogrammi. Bisognava essere sicuri di che cosa si tagliava. In altre parole bisognava essere certi dell’idea che si aveva di quella scena e, in generale, del film». Cosa ben diversa oggi con la rivoluzione digitale, dove le possibilità di tagliare e ricucire sono infinite e questo fatto ti può anche far perdere la bussola. Un cambiamento tecnologico che ha quindi portato dentro di sé anche un mutamento ontologico.

Alcune sequenze di film montati da Quadri per registi importanti gli sono servite per spiegare il lavoro del montatore. Ha per esempio parlato di una scena de L’Assedio di Bertolucci. E ha spiegato come – partendo da alcuni piani-sequenza e godendo della massima libertà da parte del regista – lui abbia voluto spezzare la continuità narrativa per creare altri spazi. Aggiungendo, alla fine, un nuovo significato a quella scena e all’opera intera.

Attraverso un altro documentario, Boatman di Gianfranco Rosi, Quadri ha evidenziato il lavoro fatto partendo da materiale girato dal regista (premiato con l’Orso d’oro a Berlino per Fuocoammare) in diversi anni. Quadri ha ricostruito la giornata tipo di un barcaiolo indiano. E lo ha fatto grazie quasi solo al lavoro sul montaggio e mescolando immagini di anni diversi. Sempre in quel film c’è stato un importante lavoro di collegamento, grazie alla creazione di rime interne. Immagini, suoni, musiche che tornano nel corso della pellicola e che aiutano lo spettatore ad ambientarsi meglio e a percepirne l’atmosfera. In altre parole ad affezionarsi. «Per me è sempre stato importante prendere per mano lo spettatore e accompagnarlo lungo il film» ha spiegato.

Altri due film come Garage Olimpo di Bechis e El sicario – Room 164 (sempre di Rosi) gli sono poi serviti per evidenziare l’importanza di un ulteriore concetto: quello della pausa dalla narrazione, lo stacco. «Sono momenti in cui lo spettatore respira, si stacca dalla storia e fa sedimentare quello che ha appena visto. Sono attimi fondamentali e che possono anche acquisire significati profondi, dando al film ancora più forza».

Insomma due modi di vedere il cinema quasi in antitesi tra loro. Eppure carichi di significati, di storia e di ricerca. Perché, alla fine, tutti si pongono le medesime domande: Che cosa è il cinema? A che cosa serve?