Informazioni
Online Weronika Maria Izdebska si presenta con il nome di Ovors («Other Voices Other RoomS). I suoi lavori si possono vedere su
www.ovors.com o sul profilo Instagram (@Ovors)


Al di là di quella finestra

Il nostro tempo incerto visto attraverso la finestra fotografata dalla giovane polacca Weronika Maria Izdebska
/ 28.12.2020
di Simona Sala

Un giorno giunse qualcosa alla finestra.
Il lavoro si arrestò ed io alzai lo sguardo.
I colori ardevano. Tutto si voltò.
La terra ed io balzammo l’una
contro l’altro.
(Faccia a faccia, Tomas Tranströmer)

Un giorno del 2021 forse qualcosa balzerà davvero alla finestra, e noi interromperemo allora il nostro lavoro, qualunque cosa staremo facendo, e alzeremo lo sguardo. I colori arderanno certamente, perché avremo ricevuto l’agognato segnale, il permesso di un definitivo ritorno alla vita, così come l’avevamo conosciuta bene o male fino al febbraio del 2020.

Come narra il poeta svedese Nobel per la letteratura 2015 Tomas Tranströmer (1931-2015) nella meravigliosa strofa dalla poesia Faccia a faccia, potremo balzare contro la Terra, e tornare a essere parte di quel Paesaggio che quest’anno, mai come ora ci manca in tutte le sue forme, poiché ne siamo stati esclusi. Quando siamo stati dapprima lambiti, poi travolti dalla prima ondata, un pezzetto dopo l’altro abbiamo ceduto tutte le nostre libertà, incontrandoci sempre meno (abdicando al nostro istinto di animali sociali), smettendo di viaggiare (calpestando la voglia e la gioia della scoperta), di andare al ristorante (rinunciando alla convivialità e alla possibilità di plasmare le nostre idee nel confronto vis-à-vis), di fare sport (sentendoci un po’ meno vivi), forse disimparando addirittura a sognare. Abbiamo dovuto lasciare andare un numero sempre più grande di cose, fino a esserci ritrovati chiusi in casa, dietro a una finestra. E non tutti hanno esattamente la fortuna di James Stewart nel capolavoro di Hitchcock La finestra sul cortile, dove è il vicinato a provvedere a un gustoso intrattenimento.

Eppure, sentendoci soli anche se accomunati al destino del resto del mondo, abbiamo vissuto il nostro primo lockdown, convinti che dall’altra parte del tunnel, alla fine del più grande sacrificio mai compiuto in contemporanea dall’umanità, sia da chi si è potuto ritirare in casa, sia da chi ha dovuto lavorare in prima linea, vi fosse una luce certa.

Era solo un abbaglio, ora lo sappiamo, anche se la macchina dei vaccini ha cominciato a scaldare i motori un po’ ovunque. E per colpa di quell’abbaglio, forse comprensibile davanti a una cosa più grande di noi, per di più invisibile, ci ritroviamo ancora qui – in questi giorni normalmente dedicati alla festa e all’incontro – nel calore più o meno solitario delle nostre case, invischiati in giornate che a volte faticano a passare, seguite da notti insonni e colme d’ansia; e quando non fissiamo i nostri schermi luminosi, guardiamo senza più vederli i paesaggi ormai scandagliati che si trovano dall’altra parte della finestra.

Quest’anno il nostro mondo si è fatto più silenzioso e più minuscolo, è meno abitato e più solitario. Il tempo trascorso in casa ci ha resi diversi. Gli anfratti delle nostre dimore non ci sono mai stati così familiari, indoviniamo i rumori dei vicini di casa, prevediamo gli scricchiolii del parquet e riconosciamo i cambiamenti di luce; forse alcuni di noi hanno perfino imparato a determinare con una certa precisione la temperatura, o a prevedere il tempo che verrà. La finestra è diventata il nostro occhio aperto sul mondo, ma anche ciò che separa le nostre prigioni domestiche, che sono l’hic et nunc, l’Heim, da tutto quello che sta fuori, al di là del vetro.

La giovane fotografa e regista polacca Weronika Izdebska da qualche tempo vive in Islanda, e proprio a Reykjavik ha immortalato in modo quasi iconico questa dicotomia con Heim, «casa», fotografia che potrebbe assurgere a emblema di questo lungo 2020 finalmente agli sgoccioli.

L’Islanda (vedi anche l’articolo di Amanda Ronzoni a pag. 17) è luogo d’acqua, terra ruvida e luce magnetica permeate da un senso di magia: tutto questo lo sono anche le foto di Weronika Izdebska. L’essere umano, quando fuggevole e quasi etereo si manifesta nella natura, è ridotto a misteriosa comparsa. In un mix letterario-estetico, nelle sue fotografie Izdebska suggerisce storie di un mondo che si perpetua, dove la natura selvaggia eppur delicata sembra esercitare una specie di ius primae noctis sul diritto all’esistenza. I suoi paesaggi, così come i volti azzurrati e velati nello sguardo e nell’espressione, risultano spesso freddi, eterei, indefiniti, eppure allo stesso tempo riescono a essere precisi, e nostalgici e sono bastanti a sé stessi.

In Heim, invece (cosa insolita per Izdebska) troviamo anche il calore di un interno, con un davanzale illuminato da una luce quasi struggente di provenienza non meglio precisata. L’illuminazione calda regala un riverbero dorato alla fila di piante e piccoli cactus, che come in una fiaba surreale, si affacciano sul placido mare illuminato dalla luna. Siamo noi, quelle piante, il corpo immobile e lo sguardo imprigionato dalla distesa piatta che sembra ormai il nostro futuro.

La pazienza imparata forzatamente nel corso di quest’anno la dovremo portare ancora per qualche tempo; molti dovranno inoltre sostenere anche il fardello di un lutto non condiviso, della perdita di un pezzo di vita, o dell’onere di avere dovuto cancellare qualsiasi progettualità dalla propria esistenza. Eppure, a guardare questa fotografia, si ha quasi l’impressione benefica che riusciremo a venirne fuori, che ce la faremo, riappropriandoci dello spazio, e anche del tempo, che ci appartenevano.

Succederà anche a noi ciò che diceva Pablo Neruda in Abbiamo perso anche questo tramonto: «Ho visto dalla mia finestra/la festa del ponente sui monti lontani.// A volte, come una moneta / mi si accendeva un pezzo di sole tra le mani».