Ai vertici del jazz, per cinquant’anni

Il premio svizzero sarà assegnato al trombettista ticinese Franco Ambrosetti, protagonista di una carriera unica e di altissimo livello
/ 18.06.2018
di Alessandro Zanoli

Se esiste un campo dell’attività artistica in cui il Ticino ha dato un contributo importante al panorama nazionale svizzero è quello del jazz. La «dinastia Ambrosetti» ha sicuramente contribuito ad elevare il livello e la reputazione del nostro cantone in questo settore di punta dell’espressione musicale. Per questo va salutata con grande favore la decisione di Jazzascona di assegnare lo Swiss Jazz Award 2018 (riconoscimento sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino) al trombettista ticinese Franco Ambrosetti. Il quale festeggia quest’anno 77 anni, di cui oltre 50 sulle scene di tutto il mondo, al fianco dei maggiori interpreti internazionali. In questi giorni, tra l’altro, esce la sua autobiografia, La scelta di non scegliere, che ripercorre i momenti essenziali della sua carriera.

Franco Ambrosetti, a proposito di premi alla carriera: se le chiedessero un parere, lei a chi assegnerebbe uno Swiss Jazz tra i musicisti che ha conosciuto?
A Daniel Humair. Humair è sicuramente uno dei grandi maestri della batteria europea. Ha influenzato tantissimi batteristi, europei e non. Uno dei maggiori meriti che gli attribuiscono è quello di essere riuscito a suonare con gli americani e poi tantissimo con i migliori a livello europeo. Daniel è uno di quelli che è riuscito a creare uno stile diverso da Jack DeJohnette, diverso da Elvin Jones. Uno stile che prende un po’ da tutti, ma che ha una personalità tale per cui quando suona Daniel lo si riconosce: una personalità forte. E poi secondo me merita anche il suo eclettismo, il suo grande interesse per la pittura. È ormai un grandissimo pittore, quindi un artista di altissimo livello in vari campi espressivi. Noi abbiamo suonato insieme tantissimo, fin da ragazzi.

JazzAscona che aveva questa fisionomia di rassegna di nicchia per il jazz tradizionale, assegnandole questo premio si sta profilando anche come rassegna di jazz moderno...
Ad Ascona stanno facendo molto per il jazz, ma comunque la formazione con cui parteciperemo sarà modulata secondo lo stile del festival, in quartetto: non porto mio figlio, ad esempio, perché Gianluca suona con uno stile coltraniano, molto moderno. Nel nostro quartetto ci sarà certamente Dado Moroni al piano, ma suoneremo le cose più semplici.

La tromba è uno strumento particolarmente difficile; ci racconta come è successo che lei l’abbia scelta come suo strumento?
È stata una scelta di quando avevo 12 anni. Mio padre mi aveva portato a Milano a seguire un concerto di Stan Kenton. E lì ho sentito Conte Candoli suonare una ballata meravigliosa che poi diventava un pezzo veloce: mi hanno impressionato il luccichio della tromba, e l’immagine di questo gigante, che suonava come un dio. Sono tornato a casa e ho detto a mio padre: «Papà, vorrei suonare la tromba». Lui mi ha risposto secco: «No! Ta set trop giuvin par sonà la trumba»; e questa è la prima parte della frase. La seconda parte della frase era: «Se ta sonat la trumba senza sonà ’l piano, l’è mei lasà perd!».

Allora ho cominciato a suonare il piano per 5 anni. Poi è arrivato in casa una volta Nunzio Rotondo, un bravissimo trombettista. Prendevo in mano lo strumento, mi ero innamorato, facevo funzionare i pistoni, c’era anche una parte ludica proprio nella bellezza dello strumento. Mio padre voleva che io suonassi il tenore, ma non mi affascinava lo strumento: invece la tromba mi affascinava. Allora, cosa sapevo? Sapevo che era difficilissima da suonare, anche se io ero molto motivato. Alla fine me l’ha regalata, a diciassette anni. E ho imparato a suonarla da solo.

Per tornare al Jazz Award; se lei dovesse dare un premio alla carriera a Franco Ambrosetti, a quale periodo della sua carriera lo darebbe?
Forse agli anni 80. Lì suonavo molto di più di quanto suoni adesso, avevo anche un confronto maggiore perché mi incontravo con molti musicisti: avevo un controllo maggiore del suono, anche se ancora adesso sto molto attento alla cura della tecnica, faccio esercizi specifici, mi prendo il tempo per riposare. Con l’avanzare dell’età faccio frasi più riflessive. Il fatto che io sia partito da Clifford Brown e sia poi passato a Coltrane ha cambiato il mio modo di concepire l’esecuzione, ha influenzato il mio modo di improvvisare (anche se, suonando la tromba non è che questa influenza si noti immediatamente).

Mi sforzo di girare senza considerare troppo gli intervalli, di allargare l’armonia, fare magari note che sembrano stonate. Mi sono lasciato molto influenzare da Michael Brecker, che era un amico, e che è un musicista post-coltraniano anche lui. Mi ispirava a fare tante note, però diverse, non quelle classiche: note che andavano in direzioni diverse, coraggiose. Magari spaiate, che sembra vadano fuori strada, ma poi capisci che in realtà hanno una loro logica.

Ultima domanda: Franco Ambrosetti riceve il Jazz Award, viene avvicinato da una persona che gli dice «Non conosco il jazz ma ne sono incuriosito. Con che disco potrei incominciare ad ascoltarlo?». Lei cosa gli/le consiglierebbe?
Consiglierei qualche disco Prestige di Miles Davis degli anni 55-56-57-58, tipo Relaxin’. Quelli con Philly Joe Jones, Red Garland, con Coltrane che suonava ancora tranquillo (e anche con difficoltà). Davis è stato un musicista importantissimo per la storia del jazz. Davis è stato l’inizio di tutto. L’ho conosciuto personalmente. E una cosa che mi rende molto fiero è quello che ha detto di me, quando gli hanno chiesto se c’è un trombettista bianco con cui suonerebbe...

In un’intervista fatta dallo svizzero Guido Mayer, ex direttore della rivista «DU», Davis insisteva nel fare delle differenze tra il «suonare bianco» e il «suonare nero». Alla fine di tutto il discorso Mayer gli chiese se non ci sarebbe mai stato un bianco in grado di suonare come un nero. Davis diceva ad esempio che nessun bianco avrebbe mai potuto cantare come Michael Jackson o come Prince. Alla fine del discorso però Miles chiese a Mayer: «Come si chiama quel trombettista che suona con George a Berlino?». George era Gruntz, ovviamente, che era il direttore musicale del Teatro di Berlino. E Miles aggiunse: «Quello sì, quello suona come un nero». Beh, ero io.

Devo dire che l’ho incontrato un paio di volte e ho chiacchierato con lui, era una persona eccezionale, lo paragonerei a Beethoven, non a Mozart. Soprattutto non era un semplice trombettista, era un vero musicista. Che anticipava le tendenze. E ha influenzato tutti noi.