«Qualunque sia il motivo che vi spinge a fuggire dal vostro paese, che sia la guerra, o la repressione, ve ne andate sapendo che per quelli che restano non c’è scampo. E non si può fare a meno di sentirsi in colpa per averli abbandonati. Poi con il tempo si riesce, in un modo, o nell’altro, a farsene una ragione. Ma c’è sempre un prezzo da pagare». Le parole rilasciate durante un’intervista sono quelle di Abdulrazak Gurnah (nella foto), Premio Nobel per la Letteratura 2021, che ha provato sulla propria pelle la fuga e l’esilio, la paura, la nostalgia e l’ossessione di dimenticare legami, ricordi, odori, luoghi e persone conosciute, o che lo avevano amato a Zanzibar, il suo paese, che ha lasciato diciottenne negli anni Sessanta del Novecento per l’Inghilterra e la libertà, anche quella di poter continuare a studiare. Ma il trauma di quella fuga, di quel taglio netto con gli affetti più cari e il disorientamento dell’esilio sono, da trent’anni a questa parte, il fulcro dei suoi romanzi, la cifra della sua narrazione che in Voci in fuga, s’intreccia con le vicende storiche e politiche del continente africano.
Siamo alla metà del 1907, e – come scrive Gurnah – «tedeschi, britannici, francesi, belgi, portoghesi, italiani e tutti gli altri avevano già tenuto il loro congresso e disegnato le loro mappe e firmato i loro trattati» e ognuno di loro ha il suo pezzo di Africa e si appresta a governarlo soffocando le rivolte delle varie etnie; dei mercanti arabi e swahili; dei marinai e dei carovanieri abituati sino a quel momento a percorrere tutto il continente senza riconoscere frontiere, o altre regole che non le proprie per trafficare con le varie popolazioni. Il romanzo, ambientato in una piccola città sulla costa della Tanzania, all’epoca parte della Deutsch-Ostafrika, Africa Orientale Tedesca, racconta come una serie di personaggi fuggiti in cerca di un destino migliore, abbiano finito per incontrarsi lì e sormontando le proprie paure, vincendo l’amarezza delle esperienze vissute, la diffidenza di chi li accoglie e le incognite dei conflitti coloniali che li rendono prima sudditi tedeschi e poi britannici, riescano a farsi una famiglia e a creare quelle radici che non avevano mai avuto altrove. Che siano essi africani, o tedeschi, di fatto sono tutti esiliati in cerca di riscatto i personaggi di questa saga avvincente che inizia con il trentenne Khalifa, di padre indiano e madre africana, sfuggito alla miseria della sua famiglia nel Gujarat, per fare il contabile di un potente quanto scaltro mercante di questa città portuale; e prosegue con Ilyas, allegro idealista che, rapito da bambino da un askaro della famigerata Schutztruppe (un’accolita di mercenari africani, zulu shangaan, nubiani, nyamwezi, armati e addestrati alla ferocia dai tedeschi per seminare il terrore), e cresciuto ed educato da una famiglia tedesca, sparisce nelle guerre coloniali africane; finché entra in scena, Hamza, diciassettenne che sembra avere il diavolo alle calcagna tanto da arruolarsi volontario nella temuta Schutztruppe dove si nasconde e poi impara a vivere. Abdulrazak Gurnah evoca un continente africano molto diverso da quello che conosciamo, o che di solito ci prefiguriamo, e la realtà che ci presenta è molto più sfaccettata e complessa di quanto un libro di storia possa raccontare.
Voci in fuga è l’affresco di una grande avventura umana intessuto di dettagli etnici e sociali, di reali episodi storici, impreziosito dai risvolti psicologici dei protagonisti, uomini e donne, solitari, sballottati dagli eventi, sospesi tra varie culture, tra la religione e le tradizioni, alla ricerca di un po’ di felicità. Non è un caso che nel racconto compaiano spesso frasi e parole arabe, tedesche, o swahili, lasciate in originale per rispecchiare la natura multilingue della società dell’epoca in cui si muovono i personaggi, persi nei meandri di un linguaggio per loro a volte misterioso, ambiguo, o incomprensibile.
Il romanzo inizia in Africa e finisce in Europa nella metà del 1960, coinvolgendoci sino all’ultimo in un universo denso di storie e di sentimenti, in un modo che non è mai sentimentale nei toni, ma piuttosto sempre alla ricerca di un punto di vista diverso, di una prospettiva di pacata sincerità attraverso lo sguardo dei protagonisti alle volte malinconico, ironico, o doloroso che però ci porta a riflettere sul continente africano e sui terribili avvenimenti di un’epoca controversa che lo coinvolsero e lo devastarono spezzando costumi millenari, ma anche catene e servitù, creandone però di nuove non meno aspre e discutibili.