Un disegno di Lila De Nobili, grande pittrice-scenografa italiana, francese di adozione e nativa di Castagnola, ritrae un terzetto di ballerini che parrebbero usciti da uno schizzo di De Pisis: a sinistra uno spavaldo giovanotto in maglietta, il gelataio Renato, sembra voler ghermire una giovane ragazza mora, Silvestra, trattenuta o difesa da un altro ragazzo, il camerierino innamorato Mario.
Si tratta del terzetto protagonista del balletto Mario e il mago, azione coreografica che Luchino Visconti trasse dall’omonima novella di Thomas Mann, con il consenso (e l’apprezzamento) dell’autore. Divenne un balletto in due atti nella stagione 1956 del Teatro alla Scala, che si avvaleva nientemeno che della coreografia di Léonide Massine e si ricorda più che per la musica del cognato di Visconti, Franco Mannino, per le scene e i costumi stupendi della De Nobili, creatrice di una Versilia anni 30 sensuale e misteriosa. I tre ballerini erano, nell’ordine, Ugo Dell’Ara, Carla Fracci e Jean Babilée.
Questo fu il momento in cui un’oscura giovane danzatrice di fila divenne Carla Fracci, l’étoile italiana che tutti i più importanti palcoscenici del mondo hanno applaudito.
La giovane «Carlina» era stata notata da Visconti fra le ragazze della «fila»: il regista la trovava perfetta per età ed espressione per il personaggio manniano di Silvestra e volle promuoverla, secondo le parole del terrorizzato Sovrintendente scaligero di allora, in un sol giorno da soldato semplice a generale. Alla fine si trovò un compromesso: quattro recite furono affidate alla matura e autorevole prima ballerina della Scala, Luciana Novaro e altre quattro alla debuttante, Carla Fracci, che poco dopo quell’incoronazione si sarebbe avviata a incarnare alla Scala (e ovunque) uno dei suoi ruoli feticcio, la primavera dell’amore, la gioventù sulle punte, Giulietta nel balletto shakespeariano di Sergej Prokof’ev.
Non è un caso che questa artista del balletto sia stata valorizzata dall’occhio di un regista come Visconti, perché la sua unicità nasceva da un bagaglio tecnico impeccabile, frutto di anni di studio e di gavetta alla scuola di danza della Scala, affinata da una carica espressiva da grande attrice (chi non ricorda come recitò nella parte di Giuseppina Strepponi nel celebre kolossal sceneggiato televisivo Rai sulla vita di Giuseppe Verdi realizzato per la regia di Renato Castellani? Fu così idiomatica da sostituirsi totalmente nel nostro immaginario alla figura non certo esile dell’originale).
Lo stesso Visconti aveva portato in quegli anni nel chiuso mondo dell’opera la leggerezza della danza, trasformando (fra mille critiche) un ruolo come quello della Sonnambula, protagonista dell’opera di Vincenzo Bellini, tradizionalmente appannaggio di floride cocorite, nella filiforme silfide con la voce camaleontica di Maria Callas. Visconti volle che Amina, la semplice paesana elvetica, avesse una grazia lunare, ispirata al mito del balletto romantico Marie Taglioni, la silfide sulle punte, il modello delle tante sfortunate Giselle (altro ruolo iconico della Fracci). Ma non è solo alle grandi vedette del firmamento tersicoreo che si pensa quando si parla di Carla Fracci.
Nel corso degli anni la completezza del suo talento, la sua capacità di portare nel balletto insieme alle figure tecniche e alle pose, i gesti, l’espressione del volto, dello sguardo, degli occhi di un’attrice mai consumata; il magnetismo dei suoi ingressi in scena come delle uscite tramutate in magici addii, facevano pensare alla Callas (che osservava appena poteva in prova o in recita) o ad Anna Magnani (di cui condivise tanti fan, passati dall’opera al ballo, via cinema).
Lo conferma l’interpretazione senza tempo della parte di Gelsomina nel balletto che Nino Rota trasse dal film di Federico Fellini di cui aveva scritte le musiche. Erano passati dieci anni dal debutto scaligero, ormai Carla Fracci era la Scala e la sua Gelsomina era così «giusta» e completa da non far rimpiangere l’incantevole Giulietta Masina del film. Rota incantato donò a Carla Fracci un carnet ottocentesco con prenotazione scritta per tanti futuri balli «con Carla» e commise una delle sue famose candide gaffe, quando chiese a Fellini, venuto alla «prima» del balletto insieme alla Masina: «Federico, ma se avessi visto questa (indicando la Fracci in camerino) avresti dato la parte a Giulietta?»
Carla Fracci, lasciato il posto fisso alla Scala all’apice, portò il balletto a illuminare, come la Luce nella straordinaria epopea umbertina del Ballo Excelsior, ogni angolo della Penisola, i teatri più famosi e i luoghi più suggestivi all’aperto, fino ai centri considerati secondari. Un’attività costante resa possibile dalla collaborazione preziosa e indispensabile del marito, il regista Beppe Menegatti, allevato nella bottega registica di Visconti, capace di rinnovare con cultura e raffinatezza gli incontri di «Carla» con i più affascinanti miti della danza, della poesia, della pittura, della letteratura.
Indomita nel difendere la sua arte contro l’esecrabile liquidazione e l’umiliante marginalizzazione del balletto nelle maggiori fondazioni liriche italiane, per altro valorizzate in qualità di Direttrice del Corpo di Ballo dell’Arena di Verona e del Teatro dell’Opera di Roma. La Fracci avrebbe dovuto terminare nella stessa carica alla Scala, ma gabole tanto turpi quanto indegne, impedirono una nomina che era già nei fatti: Carla Fracci era la Scala (e di conseguenza Milano), come diranno oggi i tanti disinformati dell’ultima ora e i coccodrilli che non l’hanno sostenuta, o peggio osteggiata.
Al congedo non è possibile sottrarsi, ma lo immaginiamo sulle note struggenti del motivo di Gelsomina, con la tromba o vocalizzato a bocca chiusa. Un groppo alla gola ci serra e, come diceva Fellini, c’ingobbiamo di una malinconia che non ci lascia più.