Addio a Toto Cutugno, vero performer melodico

Nato nel 1943, amato in tutto il mondo, il cantautore e paroliere italiano ci ha lasciati settimana scorsa
/ 28.08.2023
di Benedicta Froelich

Sebbene si possa affermare che oggi ciò avvenga sempre meno spesso, in passato la scena della musica popolare italiana è stata attraversata da figure in grado di travalicare i limiti imposti dalle banali divisioni di genere per unire tipi di pubblico anche molto differenti tra loro. Il celeberrimo Salvatore «Toto» Cutugno (nella foto), scomparso la scorsa settimana a 80 anni appena compiuti, era senz’altro uno tra i pochi eletti – e questo nonostante gli sguardi scettici di molta critica musicale italiana, che lo ha spesso visto come un esempio del kitsch made in Italy, alla stregua di figure altrettanto neglette quali Nino D’Angelo e Mario Merola.

Esiste infatti una certa forma di snobismo dai marcati accenti esterofili, che tende a relegare personalità del calibro di Cutugno al ruolo di cosiddetti «cantanti popolani», anziché popolari – e di fatto, in quel banale cambiamento di consonante si nasconde una vera e propria condanna: la tendenza altezzosa a storcere il naso davanti a quella che viene erroneamente percepita come una facile concessione alle sfumature meno «colte» del pop. Così, diventa facile dimenticare che Cutugno è stato, in realtà, uno dei rappresentanti più autentici della canzone italiana nel mondo, come evidenziato dal successo a dir poco stellare ottenuto a livello internazionale: del resto, cento milioni di dischi venduti costituiscono un record che ben pochi artisti possono vantare.

Non solo: al pari di molti performer della sua generazione, Toto è stato contraddistinto, oltreché dall’enorme successo popolare, anche da una grandissima professionalità – cosa che, nell’epoca dell’auto-tune e delle effimere popstar diventate fenomeni semplicemente grazie alla loro capacità di suscitare scandali mediatici, è ormai divenuta merce rara. Certo suscita un discreto rammarico constatare come il palco del Festival di Sanremo sia oggi sempre più spesso conteso tra giovincelli intenti a puntare molto sul look e sulla trasgressione e, per contro, troppo poco sulle proprie capacità vocali e le qualità melodiche dei brani – elementi teoricamente destinati a costituire ben più che semplici dettagli secondari. Eppure, c’è stato un tempo in cui un cantante dall’evidente talento (ma dall’aria forse non esattamente glamour) quale Cutugno poteva inanellare quindici partecipazioni a Sanremo, tra cui ben sei secondi posti – senza dimenticare, naturalmente, la vittoria del 1980 con il brano Solo Noi, poi seguita dal trionfo all’edizione 1990 dell’Eurovision Song Contest (con Insieme: 1992). Tuttavia, c’è da scommettere che i giovanissimi andati in brodo di giuggiole davanti alla vittoria dei Måneskin all’edizione 2021 dell’ambita kermesse europea non immaginino affatto che l’illustre predecessore di tanta gloria sia stato proprio un connazionale definibile come artisticamente agli antipodi, e tuttavia in grado di lasciare il segno su molteplici generazioni di ascoltatori.

E pensare che, a differenza di tante star patinate, il Nostro aveva vissuto inizi tutt’altro che privilegiati: il giovanissimo Cutugno, già batterista adolescente, dovette infatti abbandonare il pianoforte a causa del costo troppo elevato dello strumento, passando così alla fisarmonica – esperienze che gli avrebbero donato una preziosa formazione da polistrumentista, cruciale nell’infondere respiro e profondità al suo lavoro di performer. Forse anche per questo, tanta perseveranza è stata premiata da una carriera durata ben 60 anni e proseguita, instancabilmente, fino a poco prima della morte: un risultato ancor più significativo, se si pensa che Toto si è dedicato principalmente a un genere a prima vista poco internazionale quale la canzone melodica italiana nella sua accezione più culturalmente radicata, e (apparentemente) avulsa dalle mode contemporanee – il che avrebbe portato molti autoproclamatisi «intellettuali» del pop-rock a storcere il naso davanti all’inarrestabile, sempreverde rilevanza di un Cutugno che, forse proprio grazie alla propria devozione alla tradizione, ha attraversato indenne mode e correnti d’ogni tipo, rimanendo sempre sulla cresta dell’onda.

Eppure, guardandosi indietro, diviene altrettanto evidente come, per molti versi, egli sia stato ben più di un semplice ambasciatore dell’italianità nel mondo: perché se è impossibile trascurare che il suo più grande successo (nel 1983) è stato proprio il tormentone L’italiano (come dimenticare il leggendario incipit «lasciatemi cantare / con la chitarra in mano»?), forse non tutti sanno che, per ironia della sorte, Cutugno abbia finito per legarsi a quella canzone quasi per caso, dopo che Adriano Celentano (per il quale era originariamente stata pensata) l’aveva rifiutata; e anche se è facile intuire come il timbro irriverente del Molleggiato – che in seguito avrebbe amaramente rimpianto la sua decisione – apparisse semplicemente perfetto per quel pezzo, il successo inimmaginabile della versione di Toto avrebbe per sempre etichettato l’artista toscano come portavoce canoro del proprio Paese.

Tuttavia, andando oltre il risaputo status di icona del pop tricolore, Toto si era rivelato anche un autore fortemente raffinato, componendo brani, tra gli altri, per Ornella Vanoni e il già citato Celentano; e nonostante sia sempre stato identificato con la forma canzone più classica, non ha disdegnato neppure exploit di carattere più sperimentale e azzardato (si vedano le incursioni nella musica progressive da lui effettuate negli anni ’70 come cantante degli Albatros). Il che offre un’interessante dicotomia, ricordandoci come, nonostante la fedeltà alla melodia, l’Italia sia spesso stata in prima linea nell’avanguardia musicale pop – in fondo, una perfetta metafora del destino di Cutugno, «incastonato» a vita nello stereotipo del cantante demodé e d’altri tempi nonostante la sua invidiabile capacità di mettersi in gioco e rimanere sempre in sella.

Di fatto, sebbene la dipartita dell’inossidabile Toto Cutugno non sia giunta come una vera sorpresa (l’artista combatteva da anni contro il cancro), non vi è dubbio che con la sua morte scompaia, forse per sempre, anche una figura per molti versi sottilmente rivoluzionaria: quella del performer orgogliosamente popolare, che, in barba ai commenti cinici di critici musicali spesso lontani dal polso del pubblico, ha saputo combinare professionalità, talento e tradizione – regalando ai fan lunghi decenni di intrattenimento.