Kemp: eclettico, imponderabile, affascinante (Wikipedia) 


Addio a Lindsay Kemp

Nato nel 1938 nell’isola di Lewis, è morto a Livorno, dove viveva da tempo
/ 03.09.2018
di Giovanni Fattorini

Lo spettacolo più rappresentato e più amato di Lindsay Kemp (che diceva di essere un discendente diretto di William Kempe, famoso attore e ballerino del teatro elisabettiano) è stato senza dubbio alcuno Flowers. Liberamente ispirato a Nôtre Dame des Fleurs (il primo e il più lirico dei romanzi di Jean Genet), Flowers nasce nel 1968 in una cantina di Edimburgo, con attori quasi tutti non professionisti. All’inizio abbonda di parole e di scene improvvisate, poi comincia a girare il mondo, modificando la propria fisionomia, fino a diventare uno spettacolo che non intende riprodurre o riorganizzare la frammentata articolazione del romanzo di Genet, ma restituire con diverso linguaggio e uguale intensità alcuni aspetti fondamentali dell’universo genettiano: il gusto della ritualità e del travestimento, la mescolanza di lirismo e trasgressione, e soprattutto il carattere fantastico della visione, che è quella di un giovane carcerato, il quale elabora mentalmente delle scene in cui si inventa degli amanti, ricostruisce il mondo da cui vive separato, e idealizza nella figura del bel criminale il delitto che conduce alla prigione e alla morte.

Nel 1972, a trentaquattro anni, Lindsay Kemp cura la messinscena dei concerti Ziggy Stardust del suo ex-allievo David Bowie, contribuendo in misura notevolissima al trionfo del glam rock. Quanto alle numerose creazioni succedute a Flowers (per citarne solo alcune: A Midsummer Night’s Dream, Salomè, Mr. Punch’s Pantomime, Duende, Nijinsky il Matto, Façade, Alice, Variété), credo sia necessario dire almeno due parole su un lavoro del 1991: Onnagata (termine che nel Kabuki designa l’attore specializzato nei ruoli femminili). Onnagata era uno spettacolo-autoritratto, non in senso aneddotico-autobiografico, ma in quanto intreccio di affinità e ascendenze dichiarate: Isadora Duncan, Nizˇinskij, la Salomè di Wilde, Antonia Mercé (meglio nota come «La Argentina»), Kazuo Ohno, Loïe Fuller, la Mater Dolorosa e il mitico Orfeo, ammansatore di bestie feroci e vittima della ferinità latente negli umani.

Difficili, secondo alcuni, da classificare, gli spettacoli di Lindsay Kemp costituivano, a mio parere, una peculiare diramazione del teatrodanza, in cui risultavano evidenti le suggestioni del balletto classico, della danza moderna, del butoh, del mimo illusionistico alla Marcel Marceau, del varietà, del circo, del music-hall, del teatro Nô e del Kabuki, dell’opera lirica, del cinema muto e del burlesque. Eclettico e citazionista, Lindsay Kemp era però capace di imprimere a prelievi e riecheggiamenti il sigillo inconfondibile della sua personalità, che esaltava la finzione scenica, l’ambiguità sessuale e la dimensione onirica, il metamorfico e il meraviglioso, anche attraverso l’impiego frequente (e a volte stucchevole) di gelatine colorate, fumi di ghiaccio secco, immagini stroboscopiche, lampade di Wood, fasci di luce che facevano atmosfera mistica, sfere specchianti e rotanti come quelle in uso nelle discoteche, musiche sublimi diffuse ad altissimo volume.

Se non ricordo male, è stato Peter Brook a dire che uno spettacolo teatrale non può dirsi del tutto mancato se lo spettatore se ne torna a casa portando con sé almeno un’immagine che lo ha fortemente colpito. Delle molte immagini sceniche che conservo di Lindsay Kemp, voglio ricordarne due. Una è quella che concludeva Onnagata (poi ripresa in uno spettacolo del 1997, Rêves de lumière, composto di otto pezzi del tutto autonomi, ciascuno dei quali presentava un diverso personaggio). Simulando un uccello (o forse una angelo) dalle grandi ali bianche, Kemp sembrava involarsi verso il cielo delle ibridazioni meno ortodosse: uomo e donna, santa e prostituta, martire e star.

L’altra immagine proviene dalla riedizione assai migliorata (1986) del Midsummer Night’s Dream messo in scena la prima volta nel 1979. Kemp interpretava la parte di Puck: il corpo non più giovane, ma sempre duttile: interamente imbiancato, decorato, spruzzato di paillettes – e in cima una testa dal sorriso ambiguo, dalle orecchie aguzze, dalla parrucca verde che pareva fatta di muschio: uno stagionato folletto dispettoso, in parte umano in parte animalesco, che ai movimenti lentissimi, minimali, incantati, alternava gaie piroette, irridendo la stoltezza dei mortali.