Virgil Abloh, scomparso il 28 novembre 2021 a soli 41 anni, può essere considerato uno degli stilisti più popolari e autorevoli della sua generazione, ma anche un artista a tutto tondo che delle collaborazioni prestigiose ha fatto il proprio cavallo di battaglia. Il suo incredibile percorso, cominciato dal basso, quando le sfilate le spiava seduto nelle ultime file e culminato con la nomina come direttore creativo della collezione uomo della prestigiosa Louis Vuitton, fa invidia. La sua determinazione e il suo approccio visionario alla streetwear versione haute couture, quella che lui stesso chiamava street couture, lo hanno trasformato nel portavoce di una generazione di Millennials che ha saputo appropriarsi della moda trasformandola nel proprio giocoso e irriverente playground.
Questa è la versione ufficiale della storia, sorta di agiografia tutta statunitense nella quale il successo rappresenta il motore e lo scopo ultimo di qualsiasi carriera. Nel caso di Virgil Abloh vale la pena riflettere su un percorso che, malgrado il glamour di facciata, nasconde rivendicazioni sociali per certi versi sorprendenti. «Io opero secondo le mie regole, secondo la mia logica, e non ho paura» aveva affermato in un’intervista pochi mesi or sono, come a volerci ricordare che, malgrado la posizione prestigiosa alla testa di Louis Vuitton, l’anticonformismo che ha contraddistinto il suo debutto sulla scena della moda, in particolare con il label ormai cult Off-White, non l’ha mai abbandonato.
Come affermava lui stesso, il suo scopo sin dall’inizio era quello di creare una community globale che andasse oltre le limitazioni territoriali o le differenze sociali ed economiche. Una comunità che riuscisse a unire gli opposti: il rigore quasi maniacale per il dettaglio della haute couture, un savoir faire che si rivolge a un’élite iperesigente in perenne (auto)rappresentazione e il mondo della sottocultura street che della spontaneità e dell’unicità ha fatto il proprio credo.
Nato nel 1980 a Rockford, in Illinois, da genitori emigrati negli Stati Uniti dal Ghana, Abloh si avvicina al mondo dello streetwear attraverso lo skateboard e il DJing, passione che lo accompagnerà per tutta la vita. Mentre studia ingegneria civile all’Università del Wisconsin e successivamente architettura, il re della Maison Vuitton conosce il celeberrimo Kanye West, che nel 2002 lo nominerà responsabile del suo merchandising e poi direttore artistico e responsabile dei tour mondiali. Niente prestigiose scuole di moda dai nomi altisonanti per Abloh, ma una tenacia e una determinazione a prova di bomba.
Dopo quattordici anni passati al fianco di Kanye, Abloh lancia Off-White, che vuole abbattere le barriere tra i generi proponendo una moda che si nutre della strada, trasformandola e arricchendola attraverso il rigore della haute couture. A questo proposito in un’intervista afferma: «La streetwear come l’abbiamo conosciuta è antiquata, fuori moda, come la disco lo è stata all’epoca. È il momento ideale per costruire dei ponti e per fare cambiare le cose». Il suo label diventa un terreno di gioco ideale nel quale sperimentare e provocare, innovare e stravolgere le regole. Innegabile guru dei social grazie ai quali comunica senza filtri con una gioventù ultraconnessa, abituata alle immagini dal forte potenziale sovversivo, Abloh si rivolge a una generazione che non si riconosce più in un sistema binario percepito come limitante.
La «donna» di Off-White è indipendente e sfacciata, pronta a impadronirsi della strada a testa alta. Quello che conta è la sicurezza e la grinta che l’abito regala a chi l’indossa, poco importa il genere o la classe sociale. A questo proposito Abloh affermava che «i giovani di oggi non si riferiscono più alle stesse norme dei loro predecessori. Siamo entrati in una nuova era, più aperta alla diversità e nella quale i tabù che oppongono femminile e maschile cadono». Catturare il momento e persino anticiparne le tendenze, ecco la linea guida di un artista visionario che ha saputo giocare con le contraddizioni della sua epoca, mischiando le influenze e inventando una cultura nuova, più inclusiva e globale.
Nel 2018, la prima collezione per Louis Vuitton battezzata We Are the World, presentata alla stampa e a tremila studenti invitati per l’occasione, lo catapulta sotto i riflettori in quanto primo afroamericano alla testa di una maison di lusso. Questa volontà di trasgredire, di spingere anche chi non è raccomandato a raggiungere la vetta si ritrova anche e soprattutto nel suo impegno sociale.
Nel 2017 ad esempio disegna la divisa per il team di calciatori senza permesso di soggiorno Melting Passes e nel 2020 reagisce al movimento Black Lives Matter lanciando il suo Post-Modern Scholarship Fund. Da allora si è sempre impegnato a raccogliere fondi e a sostenere studenti e attività afroamericani. Da questo punto di vista Abloh è stato una sorta di mentore che ha incoraggiato tutta una (nuova) generazione a superare i propri limiti. Grazie ad Abloh la moda è diventata più politica e questo è già un grande traguardo.