Bibliografia
Isaac Bashevis Singer, Zlateh la capra e altre storie, illustrazioni di Maurice Sendak, traduzione di Elisabetta Zevi, Adelphi edizioni, p. 102, € 18


Aaron, Zlateh, e gli altri figli di Singer

Torna in libreria la tenera e sognante raccolta di racconti di Isaac Bashevis Singer
/ 06.12.2021
di Luigi Forte

Il giovane Atzel soffriva di una strana malattia: era convinto di essere morto. E sognava il paradiso dove non esistono doveri, si può bere del buon vino e mangiare carne di bue selvatico, come gli raccontava a suo tempo la vecchia balia. Nel villaggio di Chelm persino i Sette Anziani stravedono: nella neve rilucente caduta per tutta la notte sono certi che si nasconda un tesoro. Diamanti, perle che bisognerà raccogliere senza calpestare quel generoso manto bianco. E anche il signor Shlemiel vagheggia nel sonno di essere un gran re su un trono d’oro con la regina accanto che con lui addenta un’enorme frittella spalmata di marmellata.

Il premio Nobel Isaac Bashevis Singer sprigiona tutta la sua prodigiosa fantasia nei sette racconti di Zlateh la capra e altre storie, che Adelphi propone nell’ottima traduzione di Elisabetta Zevi con le illustrazioni di Maurice Sendak, ebreo polacco di Brooklyn e disegnatore impareggiabile. Un libro per bambini uscito nel 1966 e scritto originariamente in yiddish, poi tradotto in inglese da Singer stesso e da Elizabeth Shub. Favole dove il tempo non svanisce, legato alla secolare tradizione narrativa delle comunità ebraiche dell’Europa orientale, in cui si mescolano saggezza e artificio, povertà e semplicità del mondo quotidiano con il gusto del meraviglioso e del surreale.

«Mi piace scrivere storie di fantasmi – aveva scritto Singer nel 1961 – e niente si adatta meglio a un fantasma di una lingua morente». E forse anche a un demonio accompagnato da topi e folletti che strepitano, pronto a terrorizzare bambini felici nella notte di Hanukkah, la festa ebraica dei lumi. Ma a volte, come nel racconto Lo scherzo del diavolo, se ne torna malconcio al suo paese, dove «il cielo è di rame e la terra di ferro». Ci ha pensato il giovane David a bruciargli la coda per farsi restituire i genitori catturati da quell’infernale malandrino.

Singer allinea figure a metà strada fra l’invenzione e i ricordi della sua infanzia e giovinezza. Pazzerelli, allocchi dal gran cuore, ingenui e sprovveduti come Lemel, figlio di un carrettiere, o sognatori che inseguono ubbie. Salvo poi ricredersi, come lo stesso Atzel, che abbandona il paradiso degli sciocchi che suo padre, su consiglio del dottor Yoetz, gli aveva preparato in una stanza tappezzata di raso bianco con finestre chiuse e tende ben tirate e scopre che la vita terrena è di gran lunga preferibile, soprattutto dopo aver sposato il suo vecchio amore Aksah. D’ora in poi dimenticherà la pigrizia e diventerà un mercante attivo e rinomato in tutta la regione.

Del resto poi come sia veramente il paradiso nessuno può dirlo. Nemmeno gli Anziani che nel mondo dello shtetl – villaggi e borghi dell’ebraismo yiddish dell’Europa orientale – sono la saggezza incarnata. Il loro sapere sembra dissolversi in una logica fantasiosa e vuota. Né Lekisch il Babbeo né Tudras il Tonto fra i saggi di Chelm riescono a trovare una soluzione per raccogliere il tesoro nella neve senza calpestarla. Così come l’Anziano del borgo di Chelm Est consiglia al fittavolo Shmelka, le cui quattro figlie si sono ingarbugliate a letto i piedi, di colpire la coperta con un lungo bastone. Di certo per il dolore ciascuna afferrerà le proprie estremità e salterà fuori dal letto. Poi, per evitare in futuro quel disagio sarà bene maritarle. Toccherà per prima alla giovane Yenta, ma se lo sposo è quel tonterello di Lemel, il futuro non sarà certo agevole. Prende alla lettera ogni consiglio e non combina che guai. Eppure ispira una profonda simpatia per la sua sconfinata ingenuità priva di ogni esperienza del mondo.

È in quello spazio che Singer muove le sue bizzarre figure, con un sottofondo di ironia che la favola trasforma in gioco lasciando fluttuare le immagini come in un dipinto di Chagall.

Ma c’è anche una dolcezza in questi racconti che evoca con malinconia, spesso intuibile nei ritratti di Sendak, quel lontano mondo contadino, l’atmosfera dello shtetl che l’orrore nazista ha cancellato senza pietà. Come nel caso di Aaron, il figlio maggiore del pellicciaio Reuven, che deve portare in città la capretta Zlateh, ormai vecchia e con poco latte. Deve venderla al macellaio Fayvel per raggranellare un po’ di soldi di cui la famiglia ha bisogno. La strada è lunga e il tempo peggiora: inizia a nevicare e il ragazzo si smarrisce. Per fortuna trova un fienile dove ripararsi. Per giorni lui e Zlateh resteranno isolati dal mondo mentre fuori la neve ricopre ogni cosa. La capra mangia il fieno e Aaron si nutre del suo latte. Lui le parla, l’accarezza, le racconta storie e lei gli lecca la mano e il viso e dice: «Bee», che, racconta Singer, significava: «Ti voglio bene anch’io».

Torneranno a casa insieme e sarà una grande festa per la famiglia che da quella capra così affettuosa non si separerà mai più. Un affetto indissolubile come quello di Singer verso un passato cancellato dalla storia ma così vivo e pregnante nelle sue parole. «Per il narratore – scrisse nell’introduzione al volume – ieri è ancora qui, come lo sono gli anni e i decenni passati».