Recentemente, dopo l’attesa riapertura dei teatri, la visione di alcuni spettacoli mi ha spinto a riflessioni sulle necessità che dovrebbero essere la premessa di quest’arte. Il caso ha voluto che, al contempo, stessi leggendo Giochi per attori e non attori, primo tomo dell’importante opera di Augusto Boal che, dal 2020, la Dino Audino Editore ha inserito nel suo catalogo ed è oggetto principale di questo mio scritto. Ma viene naturale, nell’approfondire e conoscere la pratica di un maestro che ha rischiato la pelle e vissuto l’esilio in nome della ragione del proprio mestiere (Boal operò in Brasile negli anni 60 e, dopo essere stato arrestato e torturato, nel 1971 lasciò il paese per tornarvi nella seconda metà degli anni 80) confrontare ciò che si apprende dalla pagina con quanto avviene nel proprio presente.
In particolare sono state due creazioni ad aver fatto sì che mi interrogassi su che tipo di teatro avremmo forse bisogno, oggi. La prima affrontava un discusso fatto di cronaca, lungamente combattuto e sofferto, il quale ora, in parte anche grazie alla risonanza di un film, sembra avere infine avuto giustizia. L’altro, invece, aveva come tema la memoria dell’Olocausto. Entrambe le opere, quindi, sceglievano di scontrarsi con realtà estremamente concrete, estremamente dure e piuttosto conosciute – magari in modo superficiale, ma comunque molto narrate – attraverso drammaturgie costruite ad hoc.
Quello che stupiva nei due lavori – tra l’altro di artisti di generazioni lontane l’una dall’altra – era che, nonostante il centro di ogni operazione fosse un fatto storico la cui conoscenza è condivisa, ci fosse stata la volontà artistica di una scrittura originale ma mancasse un elemento particolare – di tipo civile, non di mero «stile» – che facesse da perno strutturale all’operazione. In parole povere, era come se i fatti venissero riportati attraverso formule standardizzate e dati noti che, purtroppo, poco aggiungevano a quanto il pubblico già sapeva e che, a mio avviso, giustificavano a fatica la ragione d’essere di ambedue le iniziative.
Ciò mi pare diverso da quanto si proponeva Boal – il quale usò lungamente il teatro proprio come strumento di intervento sociale e politico – con l’ideazione di quella disciplina a cui diede nome di Teatro dell’Oppresso, oggi ancora utilizzata da molti (anche in Svizzera italiana vi sono degli esempi). Infatti, fra gli scopi dei tanti esercizi di Giochi per attori e non attori c’è quello di rompere le meccanizzazioni che irrigidiscono il nostro «racconto della realtà» per fare emergere nuove prospettive del problema affrontato. Al contrario di quanto si potrebbe credere, infatti il teatro non è il luogo in cui ritroviamo noi stessi, ma quello in cui perdiamo l’orientamento rispetto a ciò che sappiamo.
Non si va a teatro per sentirsi dire ciò che si conosce o che i media ripetono, ma perché si necessita di una visione, perché qualcosa che il teatro soltanto può provocare accada al di là dell’idea stessa di rappresentazione. Ecco la ragione per la quale Carmelo Bene sosteneva che un certo fare teatro è «un giochetto borghese» ed ecco perché le riflessioni di Boal, oggi, ci possono ancora interessare.
Il libro pubblicato da Dino Audino contiene quello che il regista brasiliano chiamava l’«arsenale del Teatro dell’Oppresso», cioè la serie di «giochi» il cui obiettivo è risvegliare i partecipanti dal torpore fisico e psichico delle consuetudini: esercizi che invitano a un uso dissociato del corpo, a una diversa esplorazione dello spazio che lo ospita; proposte ritmiche e vocali che divengono vere e proprie narrazioni collettive; creazioni di immagini che, attraverso il coinvolgimento fisico dei partecipanti, permettono di mettere in luce relazioni di potere tra oppressi e oppressori di una determinata realtà (lo ripetiamo: Boal, il quale visse anche in Europa, fece esperienza delle dittature latinoamericane). Ma soprattutto, in Giochi per attori e non attori, sono riportate le regole di sistemi quali il teatro-forum, il cui obiettivo prevede la messa in scena di un preciso conflitto all’interno di una comunità attraverso la partecipazione dei membri di quest’ultima; una pratica scenica, quindi, che vuole farsi davvero strumento di disvelamento, di possibilità di scoperta e trasformazione attraverso la visione teatrale.
Ciò detto, se comparo la mia recente esperienza di spettatore alla lettura dell’opera didattica di Boal, non è perché io creda che si debba fare o vedere teatro-forum dalla mattina alla sera per sentirsi davvero a teatro. Se nel consigliare il libro di Boal (i cui esercizi sono tra l’altro rivolti a chiunque, perché, come diceva lui stesso, «tutti possono fare teatro, persino gli attori») mi permetto di riflettere, in generale, sul senso di un teatro che si vuole fare portavoce di determinate situazioni di sofferenza, è perché le sue pagine mi suggeriscono l’importanza, che il nostro tempo sempre più esige, dell’aggiungere qualcosa se si affrontano i drammi sociali o storici del mondo che abitiamo.
«Sono convinto che tutte le scuole teatrali (...) possono essere utili in un dato luogo e in una data epoca; ma ho scoperto che è possibile vivere soltanto se si ha un’ardente identificazione con un punto di vista», recitava la «nostra» Cristina Castrillo – chiosando Peter Brook – nel suo storico Umbral (1999): che il teatro allora, soprattutto quello che cerca il confronto con una materia incandescente, si faccia davvero carico della sofferta ricerca di quel punto di vista e nient’altro.