A tavola? Non più di sette

Seppur per motivi diversi, anche nell’antichità si cercava di regolamentare il numero degli invitati a tavola
/ 11.01.2021
di Elio Marinoni

Septem convivium, novem convicium
«In sette è un banchetto, in nove una gazzarra».
(Scriptores Historiae Augustae, Vita di Vero, 5, 1)

Aggiungi un posto a tavola recitava il titolo di una commedia musicale di Garinei e Giovannini (1974). Ora, in tempi di pandemia, i governi (non solo quello italiano) ci hanno esortato a togliere uno o più posti dalla tavola del cenone (o del pranzo) di Natale e di fine anno, limitando a poche unità il numero dei commensali. Queste raccomandazioni hanno provocato una pletora di reazioni indignate da parte di chi, strenuo difensore delle libertà individuali, asserisce che lo Stato non può legiferare sui comportamenti da tenere nelle private abitazioni o inviarvi le forze di polizia. Eppure, non sarebbe la prima volta nella storia che l’autorità tenta di disciplinare le modalità dei conviti.

Da un passo dei Saturnalia di Macrobio sappiamo che nel 182 a.C. il tribuno della plebe Gaio Orchio fece approvare una legge che fissava il numero massimo dei partecipanti a un banchetto. Ecco cosa scrive in proposito Macrobio: «Prima fra tutte le leggi sulle cene fu sottoposta al popolo la legge Orchia, proposta, su parere del senato, dal tribuno della plebe Gaio Orchio tre anni dopo che Catone era stato censore. […] In sostanza essa prescriveva un numero massimo di convitati. Ed è questa la legge di cui poi strillava Catone nelle sue orazioni, poiché si preoccupava che fossero invitati a cena in numero maggiore di quanto essa prescriveva» (Saturnalia, III, 17, 2-3, ed. Von Jan). Va tuttavia precisato che la legge Orchia non era stata dettata da un’emergenza sanitaria; si trattava invece di una legge sumptuaria, intesa cioè a porre un freno al lusso privato: una legge di austerity, diremmo noi, sul tipo della ben più famosa lex Oppia, che nel 215 a.C. – nel pieno deflagrare della seconda guerra punica, come dice Livio – aveva limitato il lusso femminile.

In ogni caso, varie sono le fonti antiche che indicano come ideale un numero piuttosto ristretto di partecipanti a un convito. Se nell’aforisma citato in epigrafe (singolarmente riecheggiato dal proverbio tedesco Sieben Gäste ein Mahl, neun eine Qual, «sette ospiti un pranzo, nove un martirio») il numero ideale è sette, secondo un passo del poemetto Ephemeris di Decimo Magno Ausonio, che ripropone lo stesso gioco di parole convivium / convicium, il massimo è sei, compreso il padrone di casa: Sex convivium / cum rege iustum; si super convicium est, «In sei, compreso il padrone di casa, è un banchetto giusto; di più, è una gazzarra» (Ephemeris, 5, 5-6).

Della questione si erano del resto già occupati in Grecia Archestrato di Gela (IV sec. a.C.), che nel suo poema Hedypatheia (La dolce vita) aveva indicato in cinque il numero ideale dei convitati (fr. 61, 3-4); e a Roma l’erudito Marco Terenzio Varrone (I sec. a.C.), che in una delle sue satire affermava che gli invitati non devono essere né meno delle Grazie, né più delle Muse, ossia da tre a nove, chiosando che «non conviene essere in molti, perché la folla perlopiù è turbolenta» (Satire Menippee, 333 Bücherer = Aulo Gellio, Noctes Atticae, XIII, 11).

Dunque, se dobbiamo credere alle fonti citate, non solo l’emergenza sanitaria, ma anche esigenze di budget e ragioni di bon ton dovrebbero continuare a consigliarci, quanto meno per il futuro prossimo, di riunire attorno alla tavola un numero assai limitato di persone.