Si dice che Stalin parlò una sola volta di musica nelle sue apparizioni nell’ex-palco degli zar al Teatro Bol’šoj di Mosca. Dopo il primo atto dell’opera Ivan Susanin di Glinka (Una vita per lo zar riscritta secondo i dettami realistico-socialisti dal poeta ex-simbolista Sergej Gorodetskij), Stalin convocò il direttore d’orchestra Sumuel Samossoud. «Mi è piaciuto tutto, ma nel primo atto mancano bemolli. Inserite bemolli». «Grazie del suggerimento, Iosif Vissarionovič», rispose il conterraneo georgiano Samossoud, «provvedo subito. Ma bisognerà prolungare l’intervallo». «Perché?» «Per spiegare all’orchestra che dobbiamo inserire i bemolli». «Bene, fatelo subito; non ho tempo da perdere».
«Al secondo atto tutto era a posto. La quantità voluta di bemolli aveva fatto la sua apparizione! Tutti erano contenti», commenta con ironia gogoliana il maestro Gennadij Roždestvenskij (1931-2018 – cognome impronunciabile per gli italofoni che potremmo tradurre con «Di Natale») nelle conversazioni-autobiografia per temi Les bémols de Staline (Fayard, pp. 333, € 24). Bruno Monsaingeon l’ha realizzata con materiale accumulato in ben quattro splendidi documentari (visibili sul sito di www.medici.tv) dedicati alla figura a un tempo colta-istrionica-riservata del grande direttore russo dall’insaziabile curiosità.
Viandante musicale e sostenitore di compositori umiliati dal regime (Alfred Schnittke, Sofiya Gubajdulina, Edison Denisov), formatore di orchestre e docente insuperabile, accompagnatore prediletto di David Ojstrach e Mistislav Rostropovič (cui tentò di dare consigli per dirigere meglio), riesumatore di capolavori dimenticati come il Naso di Šostakóvič, come tutti i balletti, le sinfonie e le cantate di Prokof’ev, padre e marito di insigne violinista (Sasha) e pianista (Viktoria Postnikova).
La vita di Roždestvenskij («la rifarei con poche correzioni») sintetizza quello che Monsaingeon chiama l’affascinante paradosso dell’Unione Sovietica: «in un contesto di estrema difficoltà, di terrore, si è sviluppata una delle vite musicali più intense e ricche del Ventesimo secolo. Compositori maggiori, interpreti immensi hanno offerto i loro talenti per sessant’anni in situazioni di pericolo e precarietà quasi surreali, sempre estreme». E con la paura, il grottesco. Non si potevano ottenere visto e passaporto se non si aveva concordato il programma con la Commissione Programmi.
Per un’esecuzione della Missa Solemnis di Beethoven a Sofia, raggiunto per telefono da una funzionaria, Roždestvenskij le fece leggere la lista alfabetica degli autori graditi. Dopo ben mezz’ora, arrivato al nome del compositore kazako Rakhmadiev, scelse un pezzo che sapeva durare 5 minuti, Festa al villaggio. Gioia della funzionaria: «E dire che mi avevano messo in guardia! Si dice che siate una persona scomoda, che crea problemi dappertutto, che rifiuta tutto quello che gli si chiede. E invece avete deciso così velocemente!». Poi la funzionaria domandò in quale posizione avrebbe eseguito Rakhmadiev. «Dove volete, anche in mezzo!». Telegrafarono a Sofia che insistevo per aggiungere la Missa Solemnis a Festa al villaggio.
L’incompetenza musicale dell’apparato gli consentì di comunicare alla Commissione che avrebbe eseguito il ventunesimo concerto per contrabbasso di Beethoven o l’ouverture per la festa del lavoro di Debussy.
A ogni età il suo divieto: da studente era impossibile trovare una partitura di un musicista «formalista» (i massimi: Šostakóvič, Prokof’ev, Miaskovskij, Chačaturjan); dopo il Disgelo non si poteva eseguire quanto il boiardo dell’Unione dei Compositori Tichon Nikolaevič Chrennikov (un incrocio russo «fra Tayllerand e Fouché») non gradiva: «non posso autorizzare quello che non ho vietato».
Eppure in quell’Arcipelago Gulag, il maestro «Di Natale» riuscì a crearsi una propria libertà nelle profondità interiori.
Libertà intellettuale valida sempre, perché «la violenza mostruosa che ci circonda riveste numerose forme. Quella del potere è una violenza ufficiale che reclama un’ideologia pretendente fondamenti e giustificazioni».