A Chiasso, dal Gianni

A colloquio con Gianni Ferrazzini, da 61 anni istrionico proprietario e gerente del Bar Pace di Chiasso
/ 21.03.2022
di Simona Sala

Uno dei segreti del suo successo, che si misura in decenni, è senza dubbio l’atmosfera autenticamente rétro. Un locale senza insegne e quasi nascosto nel cuore di una casa di inizio 900 attanagliata dall’edera. Il bancone a forma di elle, l’ingresso dalla strada, più sfacciato, e quello dal retro, in sordina. Il microscopico giardinetto, la moquette, i divanetti e certi sgabellucci, gli abat-jour negli angoli, i giornali di sport e di cultura, e il vecchio pianoforte ormai in disuso. Il soffitto con l’allinearsi dei quadrati azzurri vintage, che già solo guardarli è un tuffo nel passato, il tutto nel gusto inconfondibile del suo progettatore, Angelo Andina, che pensò il locale nel 1973. Alle pareti, qua e là sbreccate, foto di miti della musica, jazz in primis, si alternano a foto di amici, di parenti, di chi ha eletto questo ritrovo a ideale zona franca, una no man’s land familiare e ovattata, dove i silenzi, mai imbarazzati, sono colmati dalla musica, e dove ancora, a discorsi di politica se ne accavallano altri, di tempi andati e di arte, da quale sia il libro più bello di Colm Tóibín, alla Gilda del Mac Mahon di Testori, andata in scena a Milano qualche mese fa con Laura Marinoni.

La musica è indiscussa protagonista di un bar che in qualche modo è ed è stato molto di più di un semplice ritrovo. Da Lugano in giù, soprattutto a chi ha già superato i quaranta, «Il Pace», o «Dal Gianni», sono due concetti molto chiari. Il riferimento è al Bar Pace di Chiasso, in Via Soldini, dall’altra parte della ferrovia che taglia a metà la cittadina di confine. E «il Gianni» è Gianni Ferrazzini, da 61 anni istrionico protagonista di ogni singola serata del Bar che amministra, gestisce e governa dal 1961 (dopo averlo ereditato dal padre, che lo aprì nel 1950) con poche, chiare e semplici regole. L’apertura non è mai prima delle 17, giacche e mantelli vanno appesi, non si lasciano in giro oggetti, il decoro è d’uopo in ogni momento, anche quando la serata rischia di protrarsi.

Eppure, nonostante il suo nome (probabilmente in voga dopo la fine del Secondo conflitto mondiale e che è condiviso con altri trenta ritrovi in Svizzera, basti pensare al De la Paix di Lugano e all’Osteria Pace di Sessa), il Bar Pace e il suo proprietario non sono sempre stati al riparo da critiche e giudizi, soprattutto dopo il Sessantotto, quando lo si reputava un covo di comunisti, drogati e gay, come ricorda Gianni con il sorriso soddisfatto di chi ci aveva visto lungo. D’altronde, lui di problemi non se ne è fatti mai, elevando a credo esistenziale la sua idea di parità, e così come negli Anni 60 guardava con ammirazione alla studentessa Ursula, fra le uniche donne a frequentare il Bar da sola quando rientrava da Brera, negli Anni 80, decenni prima dell’esplosione del movimento LBGT+, accoglieva e frequentava in amicizia alcune trans, come la brasiliana Loma, o la splendida genovese Amanda (che, ricorda Gianni con grande trasporto, «alla Romantica faceva un bellissimo numero cantando Michèle Torr, una specie di Mina francese, amavo sentire quelle parole, che raccontavano la solitudine di una cantante che, quando si spengono i riflettori, resta sola…»). Anche Fernanda Pivano passava dal Gianni, «tenendo tutti in piedi fino alle ore piccole per parlare degli autori della beat e dei loro vizi, lei che beveva solo Coca Cola».

Erano altri tempi, è vero, come ricorda Gianni, Chiasso era ancora una cittadina di confine vivace, dove fiorivano traffici e affari di ogni tipo, dove la mobilità delle persone, affaccendate in tutte quelle attività che contraddistinguono i confini, creava un’inconfondibile identità condivisa: «gli esercenti di Chiasso erano tutti amici tra di loro. Giravano a loro volta nei bar, e si portavano dietro la clientela! Tutte le ditte avevano un rappresentante che passava ogni settimana, un giorno era quello delle sigarette, un altro quello del whisky dalla Svizzera tedesca, poi quello con lo champagne…»

Il Bar Pace è una sortadi no man’s land doveperò, grazie a Gianni Ferrazzini ci si sente un po’ come in famiglia

Un tempo, inoltre (e Gianni non è il solo a lamentarlo), i bar erano popolati da macchiette note a tutti e le cui vestigia di provincia si tramandavano per generazioni, perché intorno a loro nascevano piccole leggende metropolitane. Oggi invece i clienti sono sempre più spesso chini sul telefono: «Ricordo la rivalità tra Nardo Bizzozzero e Ulisse Valsangiacomo. Nardo da giovane era andato a Vienna perché amava il teatro, mentre Ulisse, che era un raffinatissimo gay, non si perdeva una prima alla Scala ed era amico del grande sarto di Roma Schuberth. Questi gli aveva fatto addirittura la scritta “Viavai” sulla porta del negozio. A Chiasso, quindi, c’erano quelli che parteggiavano per Ulisse, e quelli che erano per il Nardo, che andò in giro per tutta la vita con gli zoccoli, i pantaloni di velluto, il dolcevita nero, un cappotto, la parrucca e l’immancabile cerone da teatro. Nardo ci faceva recitare all’oratorio, sotto l’egida di Don Willy, e da lui imparammo molte cose».

Gianni si alza, con il suo passo felpato si dirige verso l’angolo della musica, dove ognuno delle centinaia di vinili e cd, di cui molti autografati, possono essere raccontati dal loro proprietario nei minimi dettagli. Sì, raccontati, dall’anno di uscita alla storia del cantante, dal genere di concerti a un aneddoto che l’ha visto coinvolto in prima persona… All’improvviso gli brillano gli occhi: sventola davanti a tutti il 45 giri dell’inarrivabile, quella Juliette Greco cui al Festival Leo Ferrè di San Benedetto del Tronto, in camerino, disse, «Madame j’ai fermé mon bistrot pour venir jusqu’ici». E lei, toccandogli la mano, quella stessa mano che aveva accarezzato le mani di Brel e Brassens (un luccichìo gli attraversa gli occhi), disegnò un cuore sulla copertina del disco, dedicandogli la scritta «Mon tendre». Gianni sospira con lo sguardo trasognato mentre ripone il disco.

Gianni Ferrazzini la musica l’ha sempre inseguita con l’ardore di chi la ama in modo istintivo e con un trasporto viscerale. Sin da quando, ancora ragazzo, ad Altdorf dai Benedettini, il mattino alle cinque si alzava per vedere i monaci che intonavano canti gregoriani, «nei loro cappucci e vestiti a pieghe, ci andavo matto!» o il giovedì pomeriggio, quando invece di approfittare del pomeriggio libero, seguiva Padre Philip e suo fratello Benno Gut (primo cardinale benedettino a Roma) che al Konzertsaal si esibivano nei Lieder di Schubert. Quando poi si trasferì a Soletta, per studiare commercio e approfondire il tedesco, la sera girellava cercando di capire quali bar gli piacessero («ce n’erano di belli con gli abat-jour»), bevendo Martini a 80 centesimi, «per darsi delle arie». Da Nordmann, poi, al primo piano c’era un pianobar analcolico, dove un bicchiere di latte costava 70 centesimi. A Soletta esplose anche l’amore per il teatro (e, forse di riflesso, anche per la teatralità), grazie a un professore di tedesco che portava la sua classe a vedere La visita della vecchia signora a Basilea, parlava di jazz e in classe spronava i ragazzi a recitare.

Chiasso però, nonostante la vivacità della gente, non era in grado di soddisfare la fame di cultura, teatro, musica e letteratura di Gianni Ferrazzini, anche se qualche sporadica emozione la dava anche il nostro cantone, come quando il night club Cecil ospitò Fred Buscaglione («che beveva Campari Soda e andava dal Solcà quando aveva problemi con l’auto»), che Ferrazzini diciassettenne riuscì a vedere.

Per fortuna da Chiasso alle 13.15 partiva un treno per Milano, che egli prendeva quasi tutte le domeniche. Nella capitale lombarda degli Anni 60 c’era la vertigine della scelta, del tempo che si faceva scoperta continua, i minuti correvano e ogni serata si concludeva con la corsa perdifiato verso la Stazione Centrale, dove alla 1.20 partiva l’ultimo treno per Chiasso, il lunghissimo Bari-Lecce che proseguiva fino a Stoccarda. Nasceva così una specie di vita parallela tra la cittadina di confine e Milano, ma di cui Gianni non è mai stato geloso, condividendo le sue scoperte e le «spedizioni culturali» con amici e clienti – che in fondo sono spesso la stessa cosa.

Dopo alcuni anni a vedere le stesse facce, anche in un luogo grande come Milano, si finiva per forza per conoscere tutti. E così, grazie a guide come Umberto Simonetta, che gli proponeva una città non ancora da bere, ma luminosa e autentica, Gianni scopriva locali e personaggi affascinanti per un curioso e coraggioso ragazzo di provincia: al Giamaica erano di casa Pomodoro e Bianciardi, e lavorava «la Lina» di Vacallo, morta una ventina di anni fa, che restò dietro al bancone a pulire coltelli fino all’età di novant’anni; al Santa Tecla suonavano due giovani Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, mentre al Nebbia Club di Via Canonica, con la sua puzza di muffa, si esibivano l’immenso Franco Nebbia e una sconosciuta Gabriella Ferri. All’Olimpia di Piazza Castello gestita dal direttore d’orchestra e musicista Gorni Kramer, ogni tanto Gianni andava con Chet Baker (conosciuto a Chiasso, dove l’artista era in cura da un medico «che gli prescriveva anche certi medicamenti, ma questa è un’altra storia, di cui non sapevo nulla, scoprii le sue vicende solo più tardi quando nel 1964 lo arrestarono a Viareggio e mio padre mi disse: “Begli amici che hai, però!”)». E che emozione andare al Santa Lucia e aspettare che a mezzanotte arrivassero gli attori. I baffi di Ferrazzini vibrano, mentre ricorda, «Gianni Santuccio con la sua sciarpa e il cappello era un narcisista, ma così bravo… si guardava in giro per vedere la gente che lo guardava. Poi Tino Carraro: gli passavo accanto mentre era seduto a mangiare e gli dicevo, “Buona sera, Maestro”».

Chiasso è stata una delle prime città del cantone a dotarsi di un Ufficio cultura che in questi anni di attività ha portato a Chiasso nomi di prestigio. Gianni scuote la testa e si alza. Di colpo lontano con il pensiero, canticchia una melodia tra sé e sé. Si dirige verso la consolle e fa partire un brano di Fabrizio De Andrè. «Non basta», ripete, «non basta». Forse perché la cultura è in qualche modo diventata sterile, a suo dire ormai fine a sé stessa, avendo perso il suo contorno: mancano i bar, i ristoranti, luoghi in cui fare piccoli concerti. Forse è la condanna di una scena artistica iperstrutturata come la nostra.

Gianni è stanco, si siede brevemente sul bancone. Circolavano voci inquietanti, ma non così insolite, di questi tempi: allo scadere del 2021 il Bar Pace avrebbe chiuso definitivamente i battenti. Poi, nel corso dei nostri incontri, la versione è cambiata, rassicurando i presenti: Gianni va avanti, finché ce la fa, finché con il suo aplomb se la sentirà di servire drink, noccioline e bastoncini salati, preparati con lo stile e la classe delle grandi città: «Io credo di continuare qui finché posso, finché non mi vedrete morto».

All’improvviso con voce intonata accenna a «Non più andrai, farfallone amoroso, giorno e notte dintorno cantando delle belle turbando il riposo narcisetto», dalle Nozze di Figaro, un velo pare attraversargli lo sguardo. Allora si alza e va, verso il cliente che aspetta di pagare.