A casa del patriarca Shulem Shtisel

«Shtisel», la serie israeliana che racconta le vicende di una famiglia ultraortodossa
/ 14.01.2019
di Simona Sala

Si trattava certamente di una sfida importante. Infatti, sebbene la letteratura e il cinema abbiano dalla loro storie, drammi e vita quotidiana dell’intrigante quanto blindato mondo degli ebrei ultraortodossi (pensiamo ad esempio ai libri di Pearl Abraham o a Kadosh di Amos Gitai, ma anche a Disobbedienza di Naomi Alderman, in cui si tematizza l’omosessualità nel mondo ortodosso o a Unorthodox di Deborah Feldman), diversa è la sua rappresentazione su piccolo schermo. Ora però in qualche modo è come se le porte dell’ebraismo ultraortodosso si fossero spalancate, ed esso avesse raggiunto le case di mezzo mondo grazie alla piattaforma globale di Netflix.

Shtisel, serie israeliana di successo, realizzata dai giovani Ori Elon e Yehonatan Indursky, sceneggiatore il primo e regista il secondo, dallo scorso dicembre anche su Netflix, colpisce sin dalla prima inquadratura, trascinando lo spettatore nel quartiere gerosolimitano di Geula, nel cuore della numerosa famiglia dell’imponente rabbino Shulem Shtisel. Gli Shtisel sono degli ebrei appartenenti alla rigida corrente Haredi, che rifiuta ogni forma di secolarizzazione: i matrimoni sono organizzati da un sensale, le donne portano il capo coperto, i contraccettivi sono proibiti, i bambini frequentano scuole religiose, è vietato interagire con i cani e via discorrendo. 

Fra i protagonisti della serie vi è l’indiscusso patriarca Shulem (interpretato da un intenso Doval’e Glickman), che con grande fatica e dolore si barcamena nel suo nuovo status di vedovo inconsolabile – anche se la sua amata Dvorah lo visita sotto forma di sogni o visioni (e in questo ricorda il defunto Melnitz nella Fortuna dei Meijer dell’autore svizzero Charles Lewinsky).

La vita di Shulem è piena di impegni, dall’anziana madre Bube Malka (che parla un delizioso yiddish) da visitare in casa di riposo, all’insegnamento ai bambini nell’heder, senza dimenticare le onnipresenti connection di famiglia, che contemplano, nella cerchia più stretta, le figlie Rachel, moglie di un missionario, e Giti Weiss, nemmeno trent’anni ma incinta del sesto figlio, e alle prese con un marito colpito da una profonda crisi di coscienza che lo porterà a recidersi i cernecchi e a stare lontano dalla famiglia per molti mesi; vi sono poi i figli maschi Zvi Aryeh, studente di yeshiva dalle ambizioni frustrate e una voce meravigliosa, e l’etereo luftmensch Akiva.

Intorno a Shulem ruotano inoltre nemici, amici, altri parenti, come lo scaltro fratello Nochum, che vive ad Anversa con la bella figlia Libbi, e addirittura spasimanti rimaste a loro volta vedove e desiderose di risposarsi, come la cara Aliza o la avida signora Kenigsberg. 

Altro grande protagonista della serie è Akiva: interpretato brillantemente dal bel Michael Aloni, a quasi trent’anni vive ancora con il padre, poiché nessuno degli incontri amorosi (in occasione dei quali ci si trova a tu per tu con una ragazza e si discorre del più o del meno, decidendo negli incontri successivi se valga la pena di concludere un matrimonio) organizzatigli dal sensale Kenigsberg nella hall dell’hotel Kings, è andato a buon fine; nemmeno quello con la bella e bramata «due volte vedova» Elisheva, che nonostante le apparenze e un lavoro in banca si sottomette di buon grado alle regole della comunità ortodossa.

La vita di Akiva assomiglia a quella di molti giovani, anche non ortodossi: fatica a trovare la propria strada, tenta diversi mestieri tra cui quello di insegnante nell’heder in cui lavora anche il padre o quello di «affitta stufette-elettriche» – d’inverno anche a Gerusalemme può fare molto freddo. Non vi fosse poi anche quel suo vizio, tanto inviso all’ultraortodossia, che da noi si chiama arte… Akiva infatti vive per disegnare, ricopia i lemuri allo zoo, le persone che lo circondano, osserva la realtà con sguardo trasognato.

Ha insomma un talento fuori del comune e una certa incapacità di difendersi, dovuta sì a un’insicurezza intrinseca, ma anche alla religione di appartenenza, che prevede la necessità di seguire un percorso prestabilito e che si perpetua da secoli. Il suo tormento interiore e quella malinconia che ne vela gli occhi, aggiunti alla sua proverbiale incapacità di costruirsi la vita che da lui ci si aspetterebbe, lo rendono un luftmensch, ovvero una persona fatta d’aria, inconsistente.

Soffrono i personaggi di Shtisel. Così come amano e sperano, ma sempre con una modalità trattenuta che riveste il film di una solida patina di discrezione. Anche quando si ride, magari pensando di riconoscere il tipico humour ebraico, lo si fa con garbo. A questo proposito è ad esempio esilarante il personaggio di Rebetzen Erblich, migliore amica di Bube Malka in casa di riposo che, oltre a credere di saperla più lunga degli altri su ogni possibile argomento, nella propria stanzetta gestisce un ufficio cambi illegale, poi rilevato da Giti Weiss, che deve sbarcare il lunario dopo la temporanea fuga del marito Lippe.

Non si ha mai l’impressione di spiare un mondo proibito, ma di osservarlo con rispetto, ed è forse questa la caratteristica della serie (della quale è in programma un remake ambientato a Brooklyn) che, giunta alla fine della seconda stagione, ha ricevuto un’accoglienza unanimemente calorosa. Il timore che si potesse offendere l’ultrasensibile comunità ortodossa era reale e ben fondato, ma non è andata così.

Come hanno dichiarato perfino i giornali israeliani, Shtisel, grazie alla sua pacatezza e a un plot solido, per quanto privo di colpi di scena eclatanti, riesce a creare nello spettatore una dipendenza quasi immediata, ma anche un certo affetto verso i protagonisti. Sullo sfondo delle vicende di personaggi realistici, delineati con precisione e pieni di umane passioni, si staglia una Gerusalemme affascinante e immutata da millenni. Una città operosa, mossa al suo interno da anime molto diverse e spesso addirittura contrapposte ma che, come ben dimostrano le ventiquattro puntate delle prime due stagioni, pensano, vivono e amano, come tutti gli esseri umani del mondo.