A caccia della bellezza

A Los Angeles si è (finalmente) inaugurato l’Academy Museum of Motion Pictures, un «vascello sperimentale» progettato da Renzo Piano
/ 11.10.2021
di Federico Rampini

Il giorno fatidico, Inauguration Day, è finalmente arrivato il 28 settembre. La luce del tramonto illuminava, a distanza, la collina di Hollywood visibile dalla terrazza nella «bolla di sapone», tingendola dello stesso color rosa usato per accendere la sfera di cristallo. Il Gotha del cinema di Hollywood era presente alla grande cerimonia, e per forza. Era da cent’anni che Los Angeles tentava, invano, di darsi un museo del cinema. Faide e scontri di potere tra i magnati egomaniaci delle majors di Hollywood, e perfino il 1929 e la Grande Depressione, fecero deragliare tanti di quei progetti.

Alla fine, per realizzarlo la mecca del cinema mondiale ha dovuto rivolgersi a Renzo Piano. La storia d’amore tra Piano e l’America si arricchisce così di un altro gioiello e di un capitolo nuovo, forse il più sorprendente. Questo è in assoluto il paese al mondo più attratto verso il grande architetto italiano: negli Stati Uniti portano la sua firma ben 25 opere importanti, dal Whitney Museum di Chelsea al nuovo campus della Columbia University a Manhattanville (West Harlem) alla sede del «New York Times», dal museo di scienze naturali di San Francisco a varie pinacoteche nel Massachusetts e in Texas.

L’Academy Museum of Motion Pictures è la prima grande opera dalla visibilità globale che s’inaugura mentre la pandemia non è ancora finita. È una scommessa del cinema sulla propria sopravvivenza dopo l’assalto feroce dello streaming. Infine l’apertura a Los Angeles avviene in pieno revival di antiamericanismo in quel mondo della cultura europea di cui Piano è un esponente autorevole.

Qui in America le sale cinematografiche hanno riaperto da mesi, eppure sono semivuote. Si teme che il periodo dei lockdown abbia segnato il trionfo definitivo dello streaming e quindi della fruizione casalinga, solitaria. Invece il suo museo esibisce grandi sale di proiezione. Un atto di fede? «Il cinema a casa – mi dice Piano che incontro a Los Angeles per la cerimonia di apertura – non darà mai la stessa condivisione del piacere. Anche un concerto puoi ascoltarlo in cuffia, ma è un’altra cosa immergersi nella musica in mezzo a duemila persone. Il cinema è rito collettivo, cerimoniale, celebrazione comunitaria di una bellezza».

Un’arte giovane come il cinema, che continua a cambiare sotto i nostri occhi, non può essere «fissata» in un museo. E infatti secondo Piano «questo non è un museo nel senso tradizionale. Non pretende di cristallizzare la storia del cinema, bensì di accoglierne il futuro. Già sono programmate qui centinaia di anteprime. Sarà il luogo dove tanti potranno sentirsi parte di una comunità di appassionati, dove i cineasti si spiegheranno, faranno scuola, sperimenteranno. È più una fabbrica che un museo. La velocità del cambiamento che è tipica del cinema, qui viene assecondata. Il Museum ha 16 proiettori per seguire tutte le metamorfosi tecnologiche già note, dal cinema muto al tridimensionale: altre ne verranno, e questo edificio ha la flessibilità per accoglierle. L’ambizione di farne un vascello sperimentale è cresciuta strada facendo, con amici e compagni di strada come Steven Spielberg e Joel Coen abbiamo voluto introdurre qui la dimensione della ricerca tecnologica».

Los Angeles attira come una calamita pregiudizi e stereotipi. In un’epoca in cui l’Europa torna a gonfiarsi di risentimento verso gli Stati Uniti, questa megalopoli condensa tutto il male che gli intellettuali del Vecchio continente hanno sempre pensato dell’America: finta città, ameba urbana, mostro di celluloide e di silicone, è lungo l’elenco di maldicenze. Piano, che spesso s’ispira al Rinascimento italiano, ha già affrontato in passato questa «strana città». Ha lavorato al museo di arte contemporanea Lacma, vicinissimo.

«Ho combattuto – mi dice – contro quei pregiudizi europei, contro l’idea che Los Angeles è una schifezza, una megalopoli senza storia e senz’anima. Invece possiede una magia vera, un genius loci nascosto. Anche a prescindere dalle civiltà precolombiane che ora vengono riscoperte con attenzione, nella modernità Los Angeles ha già stratificato una sua storia. L’Academy Museum nasce in parte da un edificio «storico», del 1939, i grandi magazzini della May Company che erano un po’ La Rinascente dei californiani, un’icona all’inizio del cosiddetto Miracle Mile. Los Angeles senz’anima? Non può esserlo una città che il cinema ha immortalato in molteplici capolavori da Sunset Boulevard a Chinatown, da The Long Goodbye al Big Lebowski. E poi Los Angeles cambia, sta perfino diventando una città ospitale per i pedoni, vicino all’Academy Museum apre una stazione del metrò. L’area compresa tra il museo del cinema e quello di arte contemporanea ha la vocazione di essere una piazza all’italiana, ricca di occasioni di vita comunitaria, di socialità».

Per lui è l’occasione di continuare un dialogo con il cinema, iniziato molti anni fa. Piano ha sempre avuto amici in questo mondo, da Michelangelo Antonioni a Roberto Rossellini, il cui ultimo film fu un documentario sul Beaubourg-Centre Pompidou. A Parigi ha disegnato la Fondazione Pathé, a Lione sta progettando la sede del museo dei Fratelli Lumière. «Cimentarsi con un ritratto del cinema è affascinante – dice – , perché il suo dialogo con l’architettura è costante: registi, maestri della fotografia, architetti, siamo tutti impegnati a giocare con il rapporto tra luci e ombre. In questo museo di Los Angeles ci deve essere qualcosa per cui la gente ci sta bene: la luce. Disegnandolo ho ripensato a un passaggio di Jorge Luis Borges, in cui scrive che qualsiasi attività creativa è sospesa fra la memoria e l’oblio: l’arte di evocare, risvegliare dal profondo della tua memoria delle emozioni, questo è andare a caccia della bellezza. E questo è il grande cinema».