Dove e quando
Milano, Teatro Manzoni, fino al 28 ottobre; Lugano, LAC, 5 e 6 novembre.


4 personaggi che dicono ciò che tacciono

Una commedia di Florian Zeller, autore francese di grande successo
/ 22.10.2018
di Giovanni Fattorini

Con la locuzione avverbiale «a parte» – come si legge in una voce dell’Enciclopedia dello spettacolo firmata da Silvio D’Amico – «si sogliono designare le parole che il personaggio d’un dramma pronuncia durante un dialogo non già rivolgendole agl’interlocutori, ma dicendole “fra sé”, ossia, in pratica, rivolgendole al pubblico, per fargli conoscere il suo intimo pensiero, non confessato agli altri personaggi. Gli a. p. sono solitamente indicati da apposita didascalia, oppure messi, nel testo, tra parentesi».

Bandito dai drammaturghi naturalisti al pari del monologo, l’a parte è ricomparso nelle opere di alcuni autori novecenteschi, e marcatamente nel monumentale Strano interludio di Eugene O’Neill, ridondante dramma in nove atti di cui Luca Ronconi, nel 1990, dopo opportuni sfrondamenti, curò un’affascinante messinscena della durata di cinque ore e mezza.

Più che dall’inusuale lunghezza del testo, la singolarità di Strano interludio deriva dal particolare procedimento con cui sono stati costruiti i dialoghi, e cioè dal costante alternarsi di parole dette e parole pensate, ovvero di battute che un personaggio rivolge ad altri personaggi e battute dette tra sé ma pronunciate ad alta voce, con effetti, a volte, di arduo contrappunto, che all’epoca della prima rappresentazione (New York, 1928) suscitò grande scalpore.

Quasi novant’anni dopo i nove atti di Strano interludio, un uso particolarmente (ma non ugualmente) abbondante dell’a parte lo ritroviamo nei due atti di A testa in giù (L’envers du décor, 2016), commedia di Florian Zeller, narratore e drammaturgo francese (Parigi, 1979), autore di cinque romanzi e dodici testi teatrali, tra cui il premiatissimo Il padre (Le père, 2012), che il prossimo gennaio approderà al Manzoni di Milano con la regia di Piero Maccarinelli.

L’azione di A testa in giù (messa in scena per la prima volta da Daniel Auteuil, che ne ha diretto una trasposizione cinematografica intitolata Amoureux de ma femme, in italiano: Sogno di una notte di mezza età) si svolge nell’arco di poche ore in casa di Daniel (un editore sulla cinquantina) e di sua moglie Isabelle (insegnante e giornalista). Fin dalla prima scena il loro rapporto mostra chiari segni di logoramento ed è subito evidente che il carattere forte è quello di Isabelle. Quando Daniel, timorosamente, le comunica di aver invitato a cena il suo migliore amico, Patrick, insieme alla nuova e non ancora vista compagna Emma, Isabelle dà sfogo al proprio disappunto: non perdona a Patrick di aver lasciato la moglie per una donna molto più giovane.

Nel corso della serata, mentre l’atteggiamento di Isabelle nei confronti degli invitati (Emma è molto bella e Patrick si dichiara felice del passo compiuto) non può certo dirsi cordiale (ma a un certo punto sembra ammorbidirsi), il turbamento di Daniel si fa sempre più profondo (è lui il personaggio più articolato della pièce, diciamo pure il protagonista). Attraverso gli a parte, vengono allo scoperto le sue frustrazioni, i risentimenti, le fantasie erotiche, il tedio della routine domestica, i propositi velleitari di rifarsi una vita, i pavidi ripiegamenti.

Commedia senza trama, A testa in giù sviluppa – principalmente sul piano psicologico – la poco originale situazione di partenza grazie all’uso quantitativamente abnorme di una convenzione teatrale (l’artificio dell’a parte, cioè del dire i pensieri che nella realtà si tacciono), con effetti di smascheramento di volta in volta comici, scontati, cinici, patetici o ammiccanti che in varia misura rivelano l’envers du décor (il rovescio della medaglia).

Come è facile immaginare, una commedia i cui dialoghi si sviluppano attraverso il continuo alternarsi di battute rivolte a un interlocutore e battute dette tra sé (ma pronunciate in modo che lo spettatore le possa udire chiaramente) pone a chi voglia curarne la messinscena non pochi problemi di ritmo dell’azione e di espressività corporea degli interpreti. Tranne che in alcuni passaggi dove si ritrovano fastidiosi cliché recitativi da commedia «brillante» (specie per quanto riguarda i gesti e i movimenti), Gioele Dix ha ben concertato le prestazioni degli attori, tre dei quali danno corpo e voce ad altrettanti personaggi di poco spessore: la rigida Isabelle (Paola Minaccioni), la bella e quasi sempre sorridente Emma (Viviana Altieri), il «rinato» Patrick (Bruno Armando). Emilio Solfrizzi interpreta brillantemente (a volte però con qualche sottolineatura di troppo) il personaggio psicologicamente meglio tratteggiato di una pièce boulevardière che non è destinata a durare nei secoli.