Il Signor Giorgio ha 84 anni. Ne sono passati oltre settantacinque da quei giorni. Ma ancora oggi i visi li rivede con grande chiarezza. «Non sono fisionomista, se domani ci reincontriamo per strada, è meglio che sia lei a salutarmi e a ricordarmi che ci siamo conosciuti. Ma certe facce e certe fisionomie sono incancellabili». Se gli si chiede di incubi ricorrenti, di paure e ansia, così come riportano altre persone che condividono la sua esperienza, lui glissa scuotendo la testa. «Ci sono situazioni che mi danno particolarmente fastidio, come entrare in una sala dove si sta festeggiando un compleanno e tutti sono allegri e contenti. O come il Natale, una festa che non festeggio volentieri e aspetto con sollievo che passi, vero?» dice voltandosi verso la moglie, che annuisce.
Il tutto ha un riscontro preciso con la sua storia. Il Natale del 1944 Giorgio l’aveva passato nascosto, con la madre e con i membri di molte altre famiglie, in un tunnel ferroviario dismesso sulla linea della Porrettana, la ferrovia che collega Bologna a Firenze. La sua abitazione, un casello che la sua famiglia condivideva con i militi di guardia alla linea, non era molto lontano da lì, ma era presidiata dai tedeschi. Il Signor Giorgio vi si era trasferito con i suoi genitori qualche tempo prima. Il padre, Ugo, romagnolo di Bagnacavallo, era ferroviere a Bologna, ma non avendo voluto aderire al Partito fascista era stato declassato ad ausiliario e trasferito in quella località discosta. «I primi tempi le cose erano andate abbastanza bene, avevamo fatto amicizia con i contadini che vivevano lì vicino e ci eravamo inseriti. Ma poi arrivarono i fatti dell’autunno del 1944».
Qui è necessario aprire una parentesi storica: in quell’anno la Seconda guerra mondiale si avviava alla conclusione. In Italia, le truppe di occupazione tedesche erano lentamente sospinte verso nord dall’esercito americano e dai loro alleati. Sul crinale degli Appennini, tra Toscana ed Emilia Romagna, era stata fissata la linea di difesa tedesca, la cosiddetta «Linea Gotica». Mantenere la compattezza di quel fronte era una questione essenziale per i tedeschi, mentre la manovra degli alleati puntava proprio ad attraversare le montagne da sud per dirigersi su Bologna.
Le valli del fiume Reno e del fiume Secchia, a sud della città, erano quindi presidiate dai tedeschi ma oggetto di attacco da parte di formazioni partigiane, che si erano attestate sulle montagne. Disturbati dalle loro frequenti incursioni, i tedeschi decidono di compiere una potente offensiva per spazzarle via. E la tecnica che utilizzano è quella del massacro, già messa in atto in altri scenari della stessa guerra: la popolazione civile deve essere intimidita in modo da evitare qualsiasi appoggio ai partigiani.
Giorgio racconta: «I partigiani scendevano a valle per chiedere da mangiare: confiscavano animali, prendevano quello che trovavano. Lasciavano in cambio delle ricevute che i contadini avrebbero potuto farsi rimborsare dagli alleati, al momento della liberazione. Tutti naturalmente le distruggevano subito: farsi trovare con quelle ricevute dai tedeschi sarebbe stata una condanna sicura».
Negli ultimi giorni di settembre, quindi i tedeschi iniziano una feroce manovra di rastrellamento nella regione centrale della Valle del Reno alle pendici del Monte Sole e attorno al comune di Marzabotto. «Mio padre e altri uomini furono usati come animali da soma per trasportare armi e munizioni sulle montagne adiacenti. Alla fine del lavoro egli fu ucciso con tutti i suoi compagni, e bruciato. Dopo la guerra mia madre fu chiamata per identificarne i resti e dai pochi rimasugli pensò di averlo trovato». Ugo Rambelli, padre del Signor Giorgio, era stato ucciso presumibilmente il 29 settembre 1944. Aveva 34 anni. Il suo corpo fu ritrovato nel dicembre del 1946.
Nei giorni seguenti poi l’offensiva contro i civili della regione prese dimensioni sempre più cruente. Si calcola che alla fine dell’azione, il 5 ottobre, i civili trucidati nelle maniere più disumane fossero 770 , di cui 216 bambini, 316 donne, 142 anziani sopra i 60 anni. In un calcolo a posteriori si può dire che 115 località vennero attaccate, con villaggi isolati e chiese. Le abitazioni furono date alle fiamme e distrutte, uccisi anche gli animali. Fino al 18 ottobre si calcola siano state uccise 955 persone. Tutto questo massacro viene oggi ricordato sotto il nome di «Strage di Marzabotto». I resti dei caduti sono stati raccolti in un sacrario, nella cittadina emiliana.
Il Signor Giorgio continua il suo racconto: «A un certo punto siamo stati catturati anche noi: eravamo un gruppo di donne con bambini. I tedeschi hanno appeso noi bambini a dei pali. Poi chiedevano alle donne: “Quello lì è tuo figlio? Se non ci dici dove sono i partigiani lo uccidiamo”. Le donne naturalmente non sapevano cosa rispondere e quelli sparavano. Quando è toccato a me, il caso ha voluto che mi colpissero solo a una gamba. Io per la paura e il dolore sono svenuto. Loro mi hanno preso per morto e così mi sono salvato...».
Giorgio racconta queste cose con lucidità e calma, con un controllo di sé che è ormai allenato dal tempo e dalla distanza degli eventi. Si capisce perché, oggi, le manifestazioni di gioia e di allegria lo mettano in difficoltà: «Per noi sopravvissuti torna regolarmente il senso di colpa: ci si pone la domanda “perché io mi sono salvato e gli altri no?”». Le scene a cui il Signor Giorgio e gli altri sopravvissuti hanno assistito sono di una violenza e di una assurdità inconcepibili: «Io non penso che l’uomo sia necessariamente buono, ma quello che abbiamo subìto basta a cambiare il modo di vedere il mondo per tutta la vita».
Il sentimento vissuto dal Signor Giorgio è condiviso da molti altri sopravvissuti che solo di recente sono riusciti a esprimere pubblicamente le loro testimonianze personali. Chi fosse interessato può ad esempio visionare il documentario Quello che abbiam passato, realizzato dalla Scuola di pace Monte Sole e pubblicato su Youtube all’indirizzo www.youtube.com/watch?v=U31yeOqQ9hg. Il video si concentra sulle esperienze vissute da tre bambini di allora, che abitavano nella zona attorno alla frazione di Casaglia, una delle località più colpite e teatro di un’azione di grande efferatezza, in cui decine di persone furono trucidate all’interno di un cimitero.
Una scena così drammatica da essere riprodotta in uno dei film più noti realizzati di recente attorno ai fatti di Marzabotto, L’uomo che verrà di Giorgio Dritti. «Sono voluto andare a vederlo» racconta il signor Giorgio «ma non ne sono stato impressionato, non mi ha toccato in modo particolare. Piuttosto, negli ultimi vent’anni, dopo aver provato per tanto tempo a dimenticare, sono tornato alcune volte in quella zona, a cercare i riferimenti di cui ricordavo, a cercare magari persone che avevo conosciuto».
Il ricordo del passato è comunque sempre legato a un sentimento che è anche rancore «istituzionale»: «La cosa che mi ha sempre fatto male è rendermi conto che, dopo quello che abbiamo passato, non siamo mai stati aiutati in nulla. Da un lato, il fatto che mio padre fosse stato declassato per motivi politici, ha impedito in seguito a mia madre di poter avere una pensione decente con cui sopravvivere. Io stesso, come orfano di guerra, non sono mai stato sostenuto. Ho dovuto arrangiarmi e, a conti fatti, sono fiero di esserci riuscito».
Il Signor Giorgio, infatti, raggiunti i 18 anni è entrato in servizio militare come Guardia di Finanza. È stato dislocato in un primo tempo a Rodero, piccola dogana tra Stabio e Cantello, poi trasferito a quella di Ponte Chiasso. Al termine della ferma ha trovato lavoro in una grande ditta di spedizioni di Chiasso, e lì è rimasto per oltre 40 anni, fino al pensionamento. Oggi vive con la moglie a Stabio e la sua «normalità» di pensionato non lascia trasparire nulla della sua esperienza, così drammatica. Resta però in qualche modo la necessità per noi, suoi concittadini, di fare in modo che quello che ha vissuto non venga dimenticato, che rimanga come insegnamento.
«Non partecipo alle commemorazioni ufficiali, anche perché nessuno mi ha mai invitato. Ho avuto l’impressione che in molte situazioni anche una tragedia di queste dimensioni sia stata strumentalizzata per motivi politici. Ma al di là di questo, è importante che il ricordo si conservi e non si perda». Sul tavolo davanti a noi il Signor Giorgio ha accumulato varie pubblicazioni, tra cui ritagli di giornali dell’epoca che riportano della tragica morte di suo padre, libri, opuscoli, cartine geografiche. Sono tutte annotate con appunti, nomi di persone, luoghi, numeri di telefono. Il luogo in cui si trovavano il suo tunnel rifugio e il casello ferroviario è evidenziato col pennarello arancione, sulla «Carta delle località degli eccidi nazi-fascisti nei Comuni di: Marzabotto-Monzuno-Grizzana Morandi».
Se gli si chiede se ripensando alla sua esperienza provi oggi un rancore particolare verso i criminali che l’hanno compiuto lui risponde con molta chiarezza: «Posto che il comandante delle truppe coinvolte, Walter Reder, è stato condannato all’ergastolo, dopo la guerra, si può dire che quelli coinvolti nella strage non erano veri soldati. Era una banda di criminali senza scrupoli, non soltanto tedeschi, che erano stati già impiegati in altre azioni disumane di quel tipo, in altri teatri di guerra, come a Sant’Anna di Stazzema. E non dimentico che sotto le divise tedesche si nascondevano persone che parlavano il nostro dialetto, e le abbiamo sentite in molti. Per dire la verità, io non ce l’ho con i tedeschi: c’è l’ho molto di più con i fascisti».
E qui il Signor Giorgio ci dà un ulteriore spunto per collegarci al presente: «Se si può forse dire che all’inizio il fascismo avesse delle motivazioni anche valide, che volesse promuovere un cambiamento sociale magari necessario, le sue derive violente sono state assolutamente inaccettabili e alla fine hanno portato a questi episodi criminali». A distanza di 75 anni, il racconto del Signor Giorgio ci riporta a pensare all’oggi e a riflettere su come la democrazia vada sempre tutelata e protetta. Per evitare che la storia si ripeta.