L’evoluzione del nostro cervello sociale

La scienza comincia a comprendere che l’assegnazione di una funzione umana alla macchina comporta una serie di «perdite» per il nostro sistema cognitivo
/ 11.09.2023
di Maria Grazia Buletti

«Un signore, che chiameremo Andrea, gioca a Cyberball che consiste nel passarsi la palla con altri due giocatori virtuali (due script nel visore virtuale, anche se egli pensa siano due persone reali in un’altra stanza). A un certo punto, i due giocatori non passano più la palla ad Andrea. Dopo 7 o 8 passaggi in cui viene ignorato dagli altri, egli comincia a sentire un certo disagio perché si sente escluso dal gioco». 

La neuroscienziata, docente e ricercatrice all’USI Rosalba Morese parla di questo esperimento condotto nell’ambito della ricerca delle scienze sociali, votato a sondare il comportamento del nostro cervello quando si rapporta alla realtà virtuale rispetto a quando è immerso nella vita reale. Prosegue spiegando cosa capita ad Andrea dal momento che i due giocatori virtuali lo ignorano ed egli si sente a disagio e prova malessere: due emozioni scatenate dal suo sentirsi escluso: «A livello neurofisiologico si attivano aree cerebrali in condivisione e simili a quelle che si attivano con il dolore fisico (quando ad esempio ci tagliamo o ci facciamo male). Quel disagio ha una base neurofisiologica: la persona si sente male e manifesta risposte comportamentali negative. Per alleviargli questo dolore (social pain), si dà la possibilità a una sua amica di scrivergli frasi di supporto del tipo “Forse è successo perché…”, “Gli altri due si conoscevano già, è normale”. Frasi che Andrea legge sul visore virtuale, votate ad alleviare il malessere, il dispiacere e il senso di esclusione provocati dall’essere ignorato e dal non sentirsi più parte del gruppo e del gioco stesso». Ora, Morese mette a confronto questa situazione e i suoi sviluppi se fosse vissuta nella vita reale rispetto a cosa capita ad Andrea che sta vivendo una situazione virtuale: «Nella vita reale, l’amica interagirebbe veramente con Andrea, (con la voce, la gestualità e la presenza) e lo consolerebbe dicendogli le stesse frasi che andrebbero a reclutare e attivare nel suo cervello quell’area preposta alla rappresentazione dell’intenzionalità, dei desideri e delle emozioni. Questo gli procurerebbe sollievo dal suo stato di frustrazione per la sua esclusione. Nel caso del gioco in questione, dunque nella realtà virtuale, Andrea legge queste frasi sul visore, ma quella stessa area cerebrale si attiva con fatica e sensibilmente meno, creando per contro una maggiore attivazione delle emozioni negative e amplificando in Andrea l’esperienza negativa di esclusione sociale».

Ciò significa che quando siamo in contrasto con un essere umano reale, il nostro cervello attiva quell’area preposta alle emozioni e al comportamento sociale che ci permette di trovare senso, equilibrio e sollievo dalle situazioni che viviamo come frustranti o dolorose. Invece: «Quando siamo in un contesto virtuale il nostro cervello dispone di poche informazioni, il tipo di stimolo rimane quello visivo (non sociale o immediato come potrebbe essere il timbro della voce, la visione della persona) e questo impatta sicuramente a livello di esperienza umana, come dimostra l’esperimento del gioco condotto con Andrea, perché nel comportamento virtuale non si mettono in atto automaticamente i meccanismi impliciti che solitamente il nostro cervello usa nella quotidianità del mondo reale». In questo modo, la nostra interlocutrice ci ricorda che la realtà virtuale cambia i nostri contesti, e ciò porta le neuroscienze sociali a indagare cosa accade di diverso a livello cognitivo e affettivo rispetto al vivere nella realtà: «Si tratta di una disciplina relativamente giovane che, con l’ausilio del metodo scientifico delle neuroscienze, studia i processi emotivi, cognitivi, sociali e comportamentali, aiutandoci così a comprendere perché mettiamo in atto determinati comportamenti e spiegandone i processi soggiacenti».

Oggi tutto questo ci serve per provare a capire quali strumenti possiede la nostra mente e come possiamo migliorarli: «Studiamo come rendere più efficaci processi e dinamiche attivi quando stiamo con gli altri e quando interagiamo con l’ambiente». Ma quel che oggi è più interessante, è comprendere cosa succede quando usiamo i dispositivi digitali che sempre più spesso mediano il nostro rapporto col mondo: «I processi cognitivi ed emotivi riguardano le nostre emozioni e i meccanismi di autoregolazione che ci aiutano, ad esempio, a capire le nostre emozioni negative e, di conseguenza, ci fanno sentire frustrati o tristi». La neuroscienziata spiega quindi l’importanza di pensiero, emozione e comportamento che sono tre livelli integrati nei quali l’emozione riveste un ruolo molto importante: «Essa può modulare la nostra motivazione e spingerci all’azione». Parliamo di «cervello sociale»: «Quella sua parte che si attiva quando entriamo in relazione con gli altri e che ci permette anche di gestire situazioni sociali difficili». L’esperimento condotto su Andrea dà adito a serie riflessioni perché dimostra che in una realtà virtuale la nostra risposta a livello cognitivo-affettivo è diversa da quella che daremmo nella realtà: «Il nostro cervello è già un simulatore della realtà: la interpreta sempre; il cervello legge come reale un contesto virtuale perché è fatto in modo tale che qualsiasi contesto lo spinge a fare una sua rappresentazione. Però in un contesto virtuale il nostro cervello sociale non può attingere alla complessità della realtà».

Ora, ci chiediamo se la tecnologia che tende a semplificarci la vita la stia davvero rendendo migliore, o se stiamo pagando un prezzo tropo alto in cambio della velocità e della semplificazione: «Bisogna rendersi conto del fatto che il nostro cervello si è evoluto nel corso di centinaia di migliaia di anni, in contesti molto diversi da quelli attuali. Però oggi sappiamo che gli strumenti digitali facilitano la vita delle persone. Ma stanno pure innescando dinamiche dall’esito imprevedibile, anche a causa della velocità in cui il progresso digitale si sviluppa, mentre la scienza comincia a comprendere che l’assegnazione di una funzione umana alla macchina comporta una serie di “perdite” per il nostro sistema cognitivo». Soprattutto pensando agli adolescenti bisogna trovare un equilibrio («la loro area del cervello che si occupa del processo di regolazione delle emozioni giunge a maturazione attorno ai vent’anni»): «Il punto non sta nel chiedersi se permettere loro di usare i dispositivi, per quanto tempo, a che età; sarebbe importante capire ed interrogarsi su come questi processi (spiegati dalle neuroscienze sociali e dalla psicologia) cambiano in un contesto digitale, per capire se in meglio o in peggio. Non bisogna dimenticare mai che il nostro cervello è un sistema complesso e si allena in un contesto reale dove recepisce molte più informazioni complesse e dove è maggiormente sollecitato. Cosa che non avviene quando siamo soli, con un dispositivo virtuale. Anche la nostra capacità relazionale va allenata e l’esempio dell’empatia è emblematico: la riscopriamo solo facendo esperienza, stando con le persone nel mondo reale».