Ci hanno insegnato delle categorie che oggi, nel nostro mondo, si stanno sgretolando. Il mio vicino di casa si chiama Guido, in Ticino non volevano mandarlo a scuola, perciò sua mamma ha dovuto trasferirlo in Italia. È nato sessantun anni fa, è ceramista e ha la sindrome di down. Oggi, persone come lui vanno all’università, lavorano, si sposano.
La genitorialità nelle coppie con deficit intellettivo è molto rara e il tema sembra essere affrontato pochissimo, anche dagli addetti ai lavori. «Non se ne parla molto? Non si parla nemmeno di sessualità e handicap, se è per quello. Qui da noi siamo ancora in ritardo nel considerare veramente adulte le persone con disabilità cognitive». Parlo con Danilo Forini, direttore di Pro Infirmis, e Donatella Oggier-Fusi di Atgabbes, consulente per utenti, genitori e operatori su temi legati all’affettività e la sessualità.
Mi dicono che siamo tutti fragili e tutti diversi. Che scagli la prima pietra la mamma che non ha mai avuto dubbi sulle sue capacità. Che certo, ci sono persone con difficoltà a rendersi conto di cosa comportano i propri desideri, ma queste persone vanno accompagnate nelle proprie decisioni, trattandole appunto come adulti, se adulte sono. Che vanno valutate le competenze di ognuno, senza mettere etichette a priori. Prima ancora di affrontare il tema dei figli, Donatella Oggier-Fusi mi dice che uno dei tabù con i quali la nostra società convive è il diritto alla sessualità. Mi spiega che «per tradizione» si ha tendenza a considerare le persone con handicap come eterni bambini, quindi esenti da bisogni sessuali. Molto spesso è sbagliato, ma la discussione e la ricerca di soluzioni a queste esigenze sono ancora timidi boccioli. «Qui si pone il problema di capire cosa sia una persona e quale sia il senso che si dà alla vita umana», spiega l’esperta. «Bisogna trovare un equilibrio tra protezione e autonomia. Sia i genitori sia gli operatori puntano molto sul “rendere indipendenti” le persone con disabilità fisiche, psichiche o cognitive. Ma spesso, quando si tratta di deficit intellettivi, anche l’innamoramento è percepito come pericoloso. Si ha paura di abusi, sofferenze e gravidanze indesiderate. È chiaro che ci vuole un servizio di accompagnamento più presente, con operatori più formati in questo campo. Invece troppo sovente si cerca di contornare il problema».
«Non ho mai smesso di chiedere una porta» sono le parole di Dilva, una donna di 63 anni, cresciuta in un istituto, che ha un compagno, un uomo che ama e che la ricambia. Dopo decenni di insistenza, nella struttura che li ospita hanno costruito una porta comunicante tra la camera di lei e quella di lui. Ora Dilva e il suo compagno possono vedersi e vivere un’intimità, «come chiunque», senza chiedere il permesso. Se ne parla nella mostra Tu! passata questa primavera al Castello di Bellinzona, voluta da Pro Infirmis e realizzata con L’ideatorio dell’Usi. «Penso che le prossime generazioni non dovranno aspettare tanto», continua Donatella Oggier-Fusi. «Credo che noi operatori saremo messi davanti al fatto compiuto: le persone, di solito vogliono esprimersi, conoscersi, avere relazioni, innamorarsi. Certe vogliono anche sposarsi e avere dei figli. È qualcosa di cui dobbiamo occuparci. Penso che non c’è da avere paura: chi non ce la fa a badare a se stesso, se è accompagnato in questo percorso di presa di coscienza di cosa significa far crescere e educare un bambino, rinuncerà in modo consapevole, anche se magari sofferto. Ma dato che viviamo in una civiltà che non sterilizza nessuno contro il suo volere, l’unica possibilità è parlarne, non girare la faccia. Ci sono persone con disabilità intellettive leggere che con una preparazione e un accompagnamento adeguati possono diventare bravissimi genitori, che non fanno mancare niente ai loro figli, mentre abbiamo purtroppo esempi di persone cosiddette “normodotate” che trascurano i propri bambini, senza che nessuno si sia mai posto la domanda sulla loro idoneità».
Si tratta di un difficilissimo equilibrio tra diritti umani: dell’adulto, a decidere se procreare, e del bambino, che secondo le leggi deve «crescere in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale in condizioni di libertà e di dignità». E poi c’è la domanda: chi e come può decidere per gli altri se sono in grado di avere figli o no?
Fino alla fine degli anni Ottanta in Svizzera avveniva ancora in alcuni casi la sterilizzazione coatta, oggi vietata. Dopo di allora, quando si pensa che i genitori non siano in grado di dare a eventuali figli un giusto ambiente, si è puntato soprattutto sulla contraccezione, ma non sempre con un’adeguata preparazione. Manca una formazione sia per il personale che lavora con ragazzi o adulti disabili, sia per gli interessati stessi.
«Ci sarebbe piaciuto avere dei figli», hanno detto Marta e Mauro ai giornali nel 2014, la prima coppia con la sindrome di Down che si è sposata in Italia e di cui i media hanno parlato molto. «Ma poi abbiamo capito che per noi non è semplice e abbiamo accettato l’idea di un’adozione a distanza».
Sabrina Necchi, educatrice per la Fondazione San Gottardo, mi racconta invece di una madre, qui da noi, ai nostri giorni: «Sono una delle sue educatrici di riferimento. Cristina [nome di fantasia] ha un leggero ritardo cognitivo ed è portatrice sana di distrofia muscolare: suo figlio è nato disabile. Vivono in uno spazio protetto, dove lavoro. Ho visto in lei una madre forte e affettuosa, che non faceva mancare niente al suo bambino. Ho visto un istinto materno fortissimo e una voglia di passare il tempo assieme, come se temesse sempre che qualcuno potesse toglierle il figlio. Sicuramente ha capito che una come lei deve dimostrare più delle altre di essere una buona madre».
A Zaira invece [altro nome di fantasia] hanno tolto la custodia dei tre figli a causa dei debiti, racconta Sabrina, e non a causa del suo leggero deficit cognitivo. «Secondo me», dice l’educatrice, «bisogna prevenire le situazioni che poi non andranno a buon fine, altrimenti si creano ingiustizie. Manca un posto dove parlare con calma della pianificazione famigliare quando sei in una situazione difficile. Bisogna anche lavorare sul modo di concepire e fare le perizie sulla capacità genitoriale, che per la mia esperienza non sono adeguate a capire se uno è in grado di tenere o no i suoi bambini». Cioè: è un lavoro che deve cominciare molto prima di quando ci si trova «a cose fatte»: l’educazione sessuale dovrebbe essere più presente negli istituti, nelle scuole speciali, nelle famiglie, tra gli utenti e i professionisti.
A domanda diretta, se pensa che tutti possano diventare genitori, Danilo Forini risponde: «No. Però non penso nemmeno che sia possibile dire: un tetraplegico sì, un down no. E un ragazzo che ha fatto le scuole speciali? Una persona che è stata ricoverata una volta in un ospedale psichiatrico? È una faccenda delicata e anche pericolosa. Pensiamo ai genitori sordi, o ad altri genitori che sanno di essere portatori di una malattia trasmissibile. La genetica può dirti se sei a rischio tumore, tu e i tuoi figli. Cosa si fa? Se si allarga il dibattito filosofico si può arrivare ad ammettere la nascita solo di figli sani, normali, perfetti... ma cos’è la normalità? È un tema che riguarda tutti noi, come umanità intera, e non un gruppo di persone, i cosiddetti disabili».
Alla fine non ci sono risposte, ma Forini e Oggier-Fusi concordano con Sabrina sul fatto che non siamo in una situazione d’emergenza ma che il dibattito va tenuto vivo; che bisogna giudicare caso per caso e che ci vuole più trasparenza e formazione. «Bisogna tenere conto dei bisogni affettivi e sessuali di ognuno e non soffocare ma discutere della voglia di avere bambini. Spesso basta una piccola prova con un pupazzo per rendersi conto che non è un gioco. Il desiderio di “metter su famiglia” può essere anche solo voglia di essere come gli altri, quindi talvolta è sufficiente far capire veramente: siamo tutti come gli altri. Tutti uguali, tutti diversi».