L’Aria, dei cinque elementi (con Acqua, Fuoco, Terra e Legno) è l’unico «invisibile». È tutta intorno a noi, nei nostri polmoni, ci siamo completamente immersi. Non la vediamo, ma la respiriamo, possiamo sentirne la purezza, i profumi quando siamo in ambienti naturali, oppure capire quanti danni stiamo facendo quando ci troviamo nel traffico e avvertiamo la puzza di smog.
Nonostante da questo elemento dipenda la nostra salute, la nostra stessa vita (oltre a quella della maggior parte delle specie viventi), vi scarichiamo una quantità impressionante di scorie e non solo. Siccome siamo una specie creativa, la saturiamo anche di luci e rumori, tanto che il termine inquinamento non si riferisce più solo alla qualità della sua composizione, ma si è arricchito di nuove sfumature, come «luminoso» e «acustico».
Si sente molto parlare di polveri sottili, smog, ozono e diossido di carbonio, ma spesso trascuriamo i danni che stiamo apportando all’aere in termini di disturbi sonori e luminosi.
Partiamo dai primi. L’orecchio umano, mediamente, è in grado di percepire suoni che coprono una gamma di frequenze tra i 20 e i 20mila Hertz, ma è tra i 2mila e i 5 mila Hz che sentiamo meglio. Si tratta di un retaggio antico, quando la vita dei nostri progenitori dipendeva dal saper ascoltare e reagire prontamente agli stimoli ambientali da cui erano circondati. Ce lo dimostra un interessante esperimento condotto da Gordon Hempton, studioso ed esperto di ecologia acustica (https://www.soundtracker.com/) che si occupa da anni di registrare in tutto il mondo suoni naturali che stanno svanendo.
Hempton ha campionato tutti i suoni possibili e immaginabili in cui siamo immersi, naturali e non, li ha mixati e ha applicato un filtro che lasciasse passare un’unica frequenza: quella ottimale per il nostro orecchio, ovvero 2500 Hz. Un unico suono ha bucato il filtro: il canto degli uccelli. Questo perché per millenni la melodiosa presenza di avifauna ha avuto per l’uomo un significato preciso: un ambiente prospero. Dove ci sono uccelli che cantano ci sono acqua, cibo e condizioni ideali per nidificare. Il loro canto ha sempre guidato i gruppi di cacciatori nomadi nelle loro peregrinazioni in cerca di risorse per vivere. Eppure oggi abbiamo creato una serie di suoni e rumori artificiali, in grado di coprire quelli naturali, in totale disarmonia con quelli prodotti da tutti gli altri esseri viventi.
Produciamo disturbi sonori nocivi non solo per le altre specie animali, ma persino per le piante, che crescono «ascoltando» a modo loro le vibrazioni prodotte dall’acqua nel sottosuolo e dirigendo opportunamente le radici verso questa risorsa. E noi stessi non siamo immuni dai danni provocati da questo tipo di inquinamento: ipertensione, problemi cardiovascolari e nervosi: vivere in un ambiente rumoroso può influire sui livelli dell’ormone dello stress nel sangue, con ricadute sul nostro sistema immunitario e persino sulle capacità riproduttive.
Non va meglio sul fronte dell’inquinamento luminoso. L’uomo moderno ha deciso di bandire il buio dalla propria esistenza, in nome di progresso e sicurezza. Basta dare un’occhiata al sito Lightpollution (https://www.lightpollutionmap.info/) per vedere come abbiamo addobbato il planisfero tipo albero di Natale. E anche qui i danni sono ad ampio raggio. Gli animali ne restano disorientati, quelli notturni in generale – gli impollinatori notturni in particolare –, come anche le specie di migratori che si spostano con il favore della notte. Diversi studi (uno su tutti «The dark side of light: how artificial lighting is harming the natural world», di Aisling Irwin, Nature, 2018) dimostrano che i ritmi biologici ne risultano alterati. Anche i nostri: la luce artificiale notturna (ALAN Artificial Light at Night) inibisce la produzione della melatonina – l’ormone del sonno, rilasciato nel cervello durante le ore notturne, che ha un ruolo fondamentale nella regolazione del ciclo circadiano, da cui dipendono non solo l’alternanza tra sonno e veglia, ma anche molte risposte neuroendocrine (contribuendo all’insorgenza di tumori) e comportamentali. Non da ultimo, lo spreco di energia elettrica ha un peso non indifferente sull’economia, come ci ricorda Dark Sky Switzerland (http://www.darksky.ch/).
Come dicevamo, quella umana è una specie molto creativa e una delle nostre specialità è quella di allargarci, fino ad arrivare là dove nessun uomo era mai giunto prima, per citare il noto incipit di un’amata serie televisiva. E così siamo riusciti a creare una discarica in aria, proprio sopra le nostre teste. In orbita si stima circolino qualcosa come 8mila tonnellate di rifiuti: resti di satelliti, sonde, pannelli solari, frammenti di motori, parti di navicelle e razzi, utensili vari andati perduti nel corso delle missioni alla conquista dello spazio. Tra questi – forse il più famoso detrito spaziale –, c’è la gloriosa fotocamera Hasselblad smarrita da Michael Collins nell’agosto del 1966, durante la missione Gemini 10. Il problema è che questi oggetti, anche se minuscoli, viaggiano a una velocità spaventosamente alta, e sono in grado di danneggiare strumentazioni operative come i satelliti o la Stazione Spaziale Internazionale.
Secondo un modello statistico dell’ESA, si calcola che ci siano in orbita più di 130 milioni di oggetti grandi tra il metro e 1mm. Se vi sembrano pochi e insignificanti, sparpagliati nell’immenso blu del cielo, date un’occhiata a questo video dell’ESA che ne traccia le orbite (https://youtu.be/-LL1MBpTN4w). Riparare al danno fatto non sarà semplice, ma sicuramente l’impresa avrà un che di epico: dal 2025, l’azienda svizzera Clear Space (https://clearspace.today/), in collaborazione con ESA, lancerà la prima missione attiva per la rimozione di un detrito orbitante, denominata ClearSpace-1, per il recupero di un oggetto di circa 100kg.
Aria, aere, pneuma, atmosfera, spazio: il quinto elemento. Il più fragile? Il più importante? No, al pari degli altri, uno dei cinque tasselli fondamentali dell’esistenza a cui dobbiamo più rispetto.