Sebbene sul piano della fisica moderna i concetti di tempo e spazio siano strettamente legati, essi, nella storia del pensiero, sono stati a lungo considerati separatamente. Tuttavia, a metterli in relazione, da qualche tempo, non è solo la riflessione scientifica ma anche la realtà della vita quotidiana. Certo, per ognuno di noi, vale in fondo la distinzione avanzata da Kant per la quale lo spazio, a differenza del tempo, è una dimensione «esterna», qualcosa che non appartiene alla nostra vita interiore e si pone, invece, come una condizione oggettiva e per così dire autonoma. Ma anche il tempo può essere percepito spesso come qualcosa che non dipende da noi e, dunque, come un vincolo da accettare nella sua autonomia. A mettere in relazione lo spazio con il tempo è sicuramente il fatto che, per ambedue, gli esseri umani hanno predisposto precise unità di misura che ne indicano la quantità secondo convenzioni universalmente accettate. Come conseguenza, si è sviluppata un’interazione fra queste misure e sono quindi comparsi concetti aggiuntivi quali la velocità, che indica quanto spazio percorriamo in una data quantità di tempo e la cui più stupefacente esemplificazione è senza dubbio la nozione di anno-luce, ossia la quantità di spazio percorsa in un anno dalla luce. La mutua influenza fra tempo e spazio è del resto facilmente verificabile anche nella vita di ogni giorno, per esempio quando chiediamo, intendendo sostanzialmente la stessa cosa, quanti chilometri oppure quanto tempo siano necessari per raggiungere una certa località.
In definitiva, possiamo pensare che sia lo spazio sia il tempo possiedono simultaneamente due fisionomie: da un lato quella, oggettiva, che si rileva in termini di secondi, minuti, ore e così via assieme a quella che indica centimetri, metri o chilometri e, dall’altro, quella soggettiva la quale fa rientrare nel nostro «io» dalla finestra psicologica ciò che abbiamo posto all’esterno attraverso la porta convenzionale della misura, come quando diciamo «per arrivare ci sono solo» oppure «ci sono ben» cinque chilometri.
Ciò che caratterizza l’attuale relazione fra queste due fisionomie è la loro sempre più evidente sovrapposizione. Sia il tempo sia lo spazio si sono contemporaneamente dilatati e ristretti. Come già osservato in un recente articolo sul tema del tempo, le scienze e le tecnologie attuali hanno allargato lo spettro tradizionale entro il quale a farla da padrone erano semplicemente le ore, i giorni e gli anni introducendo nella nostra percezione ordinaria delle cose da un lato misure minuscole come i millesimi di secondo o i nanosecondi e dall’altro i milioni o i miliardi di anni. Ma lo stesso spettro dello spazio si è espanso, non solo a causa dei lunghi viaggi detti appunto «spaziali» ma anche perché, sul lato opposto, biologia ed elettronica ci hanno abituato a misure prima inusitate che riguardano spazi infinitesimi eppure reali e quasi sempre persino dotati di una importanza vitale.
In particolare lo spazio, nella nostra percezione quotidiana, sta vivendo una trasformazione che non ha paragoni nel passato. Nelle città, soprattutto nelle grandi metropoli, la densità demografica raggiunge picchi elevatissimi e ciò comporta relazioni inter-umane che fanno dello spazio una risorsa preziosa e spesso contesa. Così, non a caso, si ambisce spesso a «farsi spazio nella folla» o a uscire presto dalla città per riconquistare spazio grazie a una scampagnata. La disposizione spaziale delle abitazioni e dei quartieri che, sul piano antropologico, Claude Lévi-Strauss ha dimostrato essere la «fotografia» di una struttura sociale, è oggi decisamente trasfigurata poiché, dopo il lungo periodo di inurbamento nel quale il centro della città era il luogo del potere politico e delle residenze dei ceti superiori, ora è il luogo del lavoro e degli affari. Tuttavia, nelle abitazioni urbane, che continuano peraltro a ospitare grandi quantità di residenti più o meno temporanei, gli spazi, oltre che molto costosi, tendono ad essere assai ristretti. In certo qual modo, anche qui emerge un’analogia con il tempo: i così chiamati fast food, destinati a comprimere il tempo che dobbiamo inesorabilmente dedicare all’alimentazione, hanno la propria anima gemella nei mono-locali, destinati a soddisfare l’esigenza di una pur minima disponibilità di spazio per la privatezza e il riposo.
Sullo sfondo, ma non poi tanto, fenomeni come l’agorafobia e la claustrofobia, che danno luogo a patologie più o meno gravi, come il panico, sono per definizione correlate allo spazio percepito e al disorientamento che ne può derivare, come quando una persona che risieda in un piccolo comune, si reca in una grande città e perde consapevolezza del luogo in cui si trova piombando in una peripezia ansiosa.
Tutto questo rinvia alla stessa questione di fondo che riguarda il tempo: lo spazio esiste di per sé oppure è una sorta di elastico, mentale e culturale, che, al di là della sua misura convenzionale, si accorcia o si allunga a seconda delle circostanze e dei nostri stati d’animo? La risposta dipende da molti fattori naturali e culturali ma, alla fine, dobbiamo ammettere che, come per il tempo, la persuasione circa l’esistenza simultanea dello spazio come realtà a sé stante e come realtà soggettiva è ineliminabile e che il giusto equilibrio fra queste due modalità è, in termini individuali quanto in termini collettivi, una necessità inderogabile.