«Se a maggio 2021 avremo un solo vaccino con un’efficacia almeno del 60 percento sarebbe un miracolo!», oggi un soddisfatto Alessandro Diana, vaccinologo, ci ricorda quel nostro colloquio di settembre 2020, quando emergeva una realtà pandemica permeata dal desiderio di sviluppare un vaccino sicuro ed efficace contro il Coronavirus. «Disegno di un mondo ideale», come allora lo definì egli stesso. «Oggi, in un mondo parallelo al nostro presente, potremmo ancora trovarci nel pieno dello sviluppo di un vaccino. E invece ne abbiamo già più di uno, fra i quali quelli a tecnologia mRNA efficaci addirittura al 95 per cento. Nessuna nostra previsione era stata così ottimistica!».
Guido Silvestri (immunologo, esperto di AIDS e membro dell’Emory Vaccine Center) – professore al Dipartimento di medicina, Divisione di malattie infettive, Emory University School of Medicine di Atlanta (Georgia, USA) – rafforza le osservazioni del dottor Diana: vivendo la realtà americana egli permette di avere uno sguardo più completo sulla situazione e sui dati scientifici comprovati e, a cominciare dalla capacità del vaccino di fermare la trasmissione del Covid, afferma che «a questo proposito, Israele è una fonte immensa di notizie perché la maggioranza degli over 60 si è già vaccinata e si è visto come siano drasticamente calati i casi gravi e le relative ospedalizzazioni. Ciò permette di pensare che ci siano alte probabilità che la trasmissione del virus si freni proprio mediante la vaccinazione».
Secondo Silvestri neppure le varianti (inglese, sudafricana e brasiliana) del virus dovrebbero ostacolare il vaccino: «Anche in presenza di varianti abbiamo osservato come il vaccino eviti ospedalizzazione, polmonite e casi più gravi; inoltre il Covid non muta moltissimo (meno dell’influenza) ma si trasmette di più. E comunque molte case farmaceutiche stanno studiando eventuali modifiche del vaccino presente per renderlo più efficace contro le varianti: un lavoro non complicato». Chi si è già ammalato di Covid dovrebbe comunque vaccinarsi: «L’immunità non è permanente e si sta studiando la possibilità di inoculare una sola dose a chi è già stato ammalato».
Vista la situazione incoraggiante su efficacia e sicurezza del vaccino, rimane la questione di come convincere i titubanti. «Bisogna continuare a dimostrare la loro totale sicurezza», afferma Silvestri che porta ad esempio gli USA dove oltre 42 milioni di persone hanno già ricevuto la prima dose e 15 milioni la seconda: «Ci sono stati zero morti per il vaccino, solo sintomi lievi o moderati, e qualche reazione. È importante capire che il vaccino è l’unica arma di prevenzione di cui disponiamo».
In linea pure Diana che ricorda come la corretta informazione stia alla base del buonsenso decisionale della popolazione: «In una situazione come questa, di crisi, di cose che non si sanno e di evidenze scientifiche acquisite sul campo in tempo reale, è importante saper comunicare onestamente cosa non ci è ancora noto e cosa possiamo invece affermare come evidenza scientifica. Ogni strategia va spiegata fino in fondo per permettere alla maggioranza delle persone di aderirvi proprio perché ha ben capito». Entrambi invitano a confidare nella scienza i cui «trial», afferma Silvestri, «sono stati estesi e molto precisi, nonostante i vaccini siano stati approvati in emergenza, e non ci sono reali motivi per avere paura o per non vaccinarsi».
In quest’ottica, i pochi casi di reinfezione post vaccino che sono stati osservati esigono però una spiegazione che chiediamo al dottor Diana: «Dopo due settimane dalla prima dose di vaccino, sappiamo che la protezione dovrebbe essere circa del 50 per cento. Mentre sale al 95 percento dopo il decimo giorno dalla seconda dose. C’è dunque una finestra di tempo in cui posso essere infettato, e la percentuale globale di persone a cui è successo, malgrado il vaccino, è del quattro per cento circa». Le sue considerazioni poggiano sulle ottime percentuali di efficacia: «Abbiamo osservato che le persone reinfettate dopo la prima o la seconda dose non hanno sviluppato complicazioni e non necessitano di ospedalizzazione. L’impressione è che le persone vaccinate, se si ammalano, lo fanno in forma più lieve e sono protette quasi al cento per cento dalle complicazioni (che innescano decorsi seri o addirittura infausti) dovute alla malattia. Questo è d’altronde il primo scopo della nostra campagna vaccinale». Ci ricorda l’analogia col vaccino influenzale: «È noto che l’influenza si possa contrarre malgrado la vaccinazione, ma dobbiamo sapere che l’obiettivo del vaccino influenzale non è di evitare infezioni, bensì le relative complicazioni. Chi è vaccinato contro l’influenza, così come stiamo osservando per il Covid, può sviluppare comunque blandi sintomi influenzali ma senza le temute complicazioni».
Alla luce di tutto ciò chiediamo ai due interlocutori cosa pensano della gestione pandemica, dalla linea di emergenza adottata all’inizio della pandemia (compresi i lockdown a cui le persone sono sempre più insofferenti) al prosieguo che potrebbe forse lasciare il passo a una gestione che tenga conto delle conoscenze mediche e scientifiche acquisite. «Il lockdowon iniziale, a marzo scorso, aveva un senso perché non si sapeva nulla del virus, avevamo pochi strumenti per capire contro cosa stavamo combattendo e le terapie intensive degli ospedali erano invase. Ora abbiamo molte più armi contro il virus e penso che un lockdown totale possa essere solo deleterio», afferma il professor Silvestri a cui fa eco Diana che chiarisce anche la strategia dei test a tappeto in atto in Svizzera: «Già lo scorso luglio, in una riunione zoom fra professionisti, l’epidemiologo di Harvard professor Michael Mina disse che pensare di fare molti auto-test a domicilio avrebbe permesso di evitare il lockdown. Ammetto di aver pensato che fosse azzardato, allora, in ragione della sensibilità molto più bassa di questi test per rapporto a quello molecolare a cui si devono sottoporre tutti coloro che presentano sintomi. Da ottobre sto però divulgando questo nuovo principio che ora ho ben compreso: questi test fai da te sono l’unico modo per uscire dal macro-lockdown perché si tratta di un depistaggio di tutti quegli asintomatici (40-50 per cento dei test positivi sono asintomatici) che così potranno osservare un micro-lockdown con la propria famiglia».
Egli invoca le conoscenze acquisite sul virus («ne conosciamo la trasmissione, sappiamo che il domicilio è un focolaio, così come i posti chiusi, che il virus necessita della vicinanza di esseri umani per propagarsi») per invitare tutti a sottoporsi individualmente a questi auto-test domiciliari («2 o 3 volte a settimana») nell’ottica di una strategia di depistaggio che, insieme all’avanzamento della campagna vaccinale, permetterà alla società e all’economia di riguadagnare salute e vita.