«Boys don’t cry», cantavano i Cure nei lontani anni Ottanta, raccontando il bisogno di reagire a un dolore con le lacrime e allo stesso tempo l’essere impossibilitati a farlo in quanto uomini. Quando si parla di temi legati al femminicidio e alla violenza di genere spesso si ritiene che chi parla sia sempre e comunque una donna volta a denunciare le brutalità maschili, ma il fallocentrismo in realtà danneggia anche l’altra parte, gli uomini che si trovano ingabbiati in codici di comportamento dettati da una cultura ingenerosa non solo verso le quote rosa. Non tutti se ne accorgono, ma qualcuno sì: nello specifico, una rete di uomini sparsi in diverse città italiane, che ha voglia di discutere, di capire e dialogare, di cercare nuovi basamenti sui quali fondare la propria identità maschile. «Maschile plurale» nasce proprio a questo scopo. In occasione di una conferenza pubblica svoltasi alla Biblioteca cantonale di Bellinzona a metà novembre e organizzata da Comundo, abbiamo avvicinato il suo fondatore, Stefano Ciccone.
Che cosa intende con l’espressione «maschile plurale»?
Ci sono tanti modi di essere uomo. Per questo abbiamo chiamato la nostra associazione così, per far passare il concetto che ogni uomo possa vivere e interpretare la propria mascolinità al di là dei modelli imposti. Siamo convinti, infatti, che anche gli uomini subiscano pesanti condizionamenti sociali. L’esperienza di «maschile plurale» è nata da una rete di uomini sparsi in molte città italiane che avevano espresso un desiderio di cambiamento e di libertà, essendosi accorti che quei modelli sono delle gabbie. Parallelamente a questo abbiamo riconosciuto la violenza maschile nei confronti delle donne, che non può essere attribuita a una devianza e nemmeno agli immigrati o agli stranieri, ma è frutto di una cultura condivisa. Tutti gli uomini, anche quelli che non hanno mai agito violenza, sono immersi nella cultura che la produce.
Come se ne esce?
Non ha senso chiedere più repressione, bisogna lavorare sul cambiamento culturale. L’impegno principale di «maschile plurale» riguarda l’autoconsapevolezza e la trasformazione personale, visto che il cambiamento parte prima di tutto da noi. Non è possibile o perlomeno è difficile farlo da soli, per questo è fondamentale il confronto con altri uomini e la condivisione delle storie personali, dei desideri, delle aspettative e delle frustrazioni, che palesano quanto i condizionamenti siano presenti e agiscano nelle scelte individuali. Non è di secondaria importanza il lavoro pubblico e per questo ci impegniamo ad andare nelle scuole: quando in una classe arriva a parlare di violenza nei confronti del femminile proprio un uomo, si infrangono tutti quei luoghi comuni, quei cliché secondo i quali sono sempre le femministe a parlare di questi temi perché ce l’hanno con i maschi.
Come avvicinare gli uomini, che, a causa di questi condizionamenti, tendono ad essere refrattari a questo genere di discorsi?
Evitando di giudicare e di fare la parte degli uomini buoni che giudicano quelli che sbagliano. È meglio lasciar perdere gli approcci di tipo normativo, quelli che suggeriscono cosa bisogna e cosa non bisogna fare. Spesso, quando si fanno questi discorsi, si punta il focus sul dovere, ricordando all’universo maschile che la perdita di potere e privilegi è qualcosa da accettare supinamente. Io credo che dovremmo ribaltare la rappresentazione: anche gli uomini possono guadagnare molto nel cambiamento, in termine di relazione con i propri figli, con le donne e con gli uomini stessi. Oggi la sessualità per gli uomini è spesso legata all’ansia di prestazione, mentre la socialità con gli altri uomini risente del cameratismo o della competizione «fra maschi». Il rapporto con i figli è irrigidito nel ruolo di pater familias, quello che porta lo stipendio a casa e deve far rispettare la legge. Abbandonare questi paradigmi vuol dire guadagnare una qualità della vita che le generazioni di uomini precedenti non hanno conosciuto.
Quanta sofferenza provocano questi modelli soffocanti?
Purtroppo gli uomini sono in gabbia, ma è una gabbia invisibile. Gli uomini vedono innanzitutto i propri privilegi, che sono evidenti, ma difficilmente riescono a percepire i propri vincoli. I modelli di genere sono a tal punto introiettati da risultare normali. Ma quando come uomini ci sentiamo a disagio nel fare qualcosa, sentiamo di non essere capaci di mettere in gioco una nostra emotività, percepiamo dell’imbarazzo anche nell’usare il corpo, per esempio per ballare o abbracciare qualcuno, in quel momento possiamo accorgerci di quanto questi condizionamenti siano profondi. E sono gli stessi condizionamenti che a tre anni ci impedivano di piangere per non sembrare una femminuccia e a quattordici anni ci costringevano a fare le gare con i nostri coetanei per dimostrare di essere virili, mentre oggi, da adulti, ci portano ad avere l’ansia da prestazione a letto o a non sentirci abbastanza uomini se non portiamo a casa lo stipendio o se la nostra compagna guadagna più di noi.
La relazione fra sessi è diventata ormai intricatissima. Cosa consiglierebbe a quelle donne che si trovano ad avere a che fare con uomini bloccati, che fanno fatica a impegnarsi in una relazione?
Consiglio di scommettere su questo cambiamento, che può essere disorientante anche per le donne a tal punto da spingere ad agire da freno. Oggi c’è questa retorica sugli uomini che non sono più quelli di una volta, che sono in crisi, incerti, come se in qualche modo ci fosse la nostalgia dell’uomo tradizionale, più virile. Scoprire che gli uomini hanno altre sfaccettature, magari impreviste, può essere arricchente anche per l’universo femminile. Alle donne quindi dico: accettate la sfida di avere a che fare con un uomo che non sta dove voi vi aspettate che stia.