Quel pomeriggio d’estate, alla villa di Neggio che guarda sul golfo di Magliaso, Vittore Frigerio era arrivato più morto che vivo. Il tram l’aveva scaricato alla base della collina, si aspettava un bicchier d’acqua. Il giudice lo attendeva, lo intrattenne, si parlarono a lungo, lo congedò soddisfatto di come andavano le cose al «Corriere». Il bicchier d’acqua non fu servito. Raccolta dalle labbra di Vittore Frigerio (1895-1961), la storiella ritrae una debolezza di Agostino Soldati, proprietario del giornale, il quale abitava a Losanna dove ha sede il Tribunale federale e quando scendeva in Ticino stava a Neggio, nella grande casa in cui la famiglia del medico Antonio, suo padre (1828-1883), era stata – come si dice – allietata dalla nascita di 13 figli: sette maschi, tra cui Agostino, e sei bambine.
Del «Corriere del Ticino», Agostino Soldati era rimasto l’unico proprietario. Nato nel 1857, avvicinandosi per lui l’età del redde rationem, rifletteva sulla cattiva esperienza di molte famiglie di emigrati, nelle quali una fortuna accumulata col sudore di una o due generazioni era finita dispersa e sprecata tra troppi eredi. Il «Corriere» doveva avere un altro destino. Da lui fondato nel 1891 per uno scopo politico (creare un’alternativa alla rivalità tra liberali e conservatori), era diventato un piccolo giornale indipendente dai partiti e di buona qualità: con pagine di esteri (molte corrispondenze dalle capitali), di politica nazionale, ma anche di cronaca, di cultura e (in questo fu il primo) di sport.
Il 5 settembre 1938, un mese appena prima di morire, chiamato a sé Raffaele, il maggiore dei suoi nipoti (il giudice non aveva figli), Agostino dettò perciò un «testamento spirituale» che prescriveva al giornale non solo la linea politica ma anche la futura gestione economica:
«(…) Deve però essere ritenuto, e questa è la mia precisa volontà che prego di rispettare, che i titoli che ora costituiscono il patrimonio del Corriere e quelli che saranno nel seguito acquisiti con gli avanzi annuali non dovranno mai da voi essere considerati come vostra proprietà personale, ma come proprietà del Corriere, considerato come se fosse un ente autonomo e destinato a far fronte ai sempre crescenti bisogni del giornale».
Agostino Soldati morì il 9 ottobre 1938.
Poco più di tre anni dopo, il 24 novembre 1941, Raffaele diede esecuzione al testamento creando la «Fondazione per il Corriere del Ticino». L’avrebbero governata alla pari, per sempre, un rappresentante dei Soldati di Neggio e uno dei Soldati d’Argentina.
Imprenditori in Argentina
Come altre famiglie emigrate dal Sottoceneri durante l’Ottocento, i Soldati avevano non solo «fatto fortuna» in Argentina ma creato imprese, aperto allo sviluppo quartieri nuovi, costruito strade, ferrovie. Il Volume XI del Dizionario storico della Svizzera cita, accanto alle biografie del giudice federale Agostino e a quella di un suo nipote omonimo: l’ambasciatore Agostino (1910-1966), la biografia di due fratelli: Giuseppe (1864-1913), attivo a Baires nella chimica e nella farmaceutica, rea-lizzatore al ritorno in patria della Ferrovia Lugano-Ponte Tresa e della strada cantonale che da Magliaso sale a Neggio, e Pio (1871-1934), titolare di industrie chimiche e farmaceutiche, attivo in società e in politica.
Il compito di rappresentare per primo il «ramo d’Argentina» toccò ad Agostino, figlio di Pio Soldati, fratello del fondatore. Nato a Buenos Aires nel 1910, Agostino era entrato giovane in diplomazia: un bell’uomo, alto, lo vidi più volte transitare nei corridoi della redazione, allora in Via Pasquale Lucchini, sempre fasciato di abiti blu scuro. Avrebbe condiviso la presidenza della Fondazione fino alla sua morte, nel 1966, molto scrivendo e telefonando da Parigi, dove era a capo dell’Ambasciata svizzera.
Il «ramo» di Neggio
Fu Raffaele, negli anni subito seguenti la fine della guerra mondiale, a occuparsi più da vicino al giornale. Viveva con la moglie Sofia – nata Balli, una locarnese – e tre figli: Matilde nata nel 1930, Silvio (nel 1931) e Antonio (nel 1937), in una bella casa ombreggiata da scurissimi ippocastani al confine tra Lugano e Massagno. Raffaele e Sofia morirono a breve distanza: lui nel 1952, lei nel 1953. La linea successoria cadde sulla prima nata dei coniugi deceduti, Matilde.
Era logico che Matilde, andata sposa nel ’57 a un bellinzonese: Giovanni Bonetti (meglio conosciuto come Giampiero, «Peo» per gli amici) dovesse nei primi anni rispettare l’autorevolezza e l’esperienza dello zio ambasciatore e di alcuni amici stretti del defunto giudice federale: l’avvocato Luigi Balestra, notaio dell’Atto di fondazione, e soprattutto il banchiere Gino Nessi, proprietario della Banca Popolare di Lugano, che teneva i cordoni della borsa del giornale. La sua indipendenza si sarebbe manifestata col tempo, ma soprattutto a partire dalla morte dell’ambasciatore Agostino, avvenuta nel 1966.
Il «Blätterwald» ticinese
Sei erano le testate uscite indenni dalla bufera della guerra mondiale 1939-45: quattro di partito e due indipendenti: il «Corriere del Ticino» e il cattolico «Giornale del Popolo». Più diffuso, sia pure di poco, era il «Giornale del Popolo». Il «Corriere», in città, lo distribuiva la Posta prima di mezzogiorno, oppure si comprava nelle edicole, allora molto numerose. Ai lettori fuori Lugano (meno di un quinto del totale) era recapitata per posta o ferrovia una «prima edizione» chiusa già alle 18 del giorno prima.
È curioso e significativo che il giornale non avesse perso quota rispetto all’anteguerra. Di sicuro lo aveva danneggiato la sua vicinanza al fascismo italiano. Il giorno dell’armistizio c’era stata addirittura una piccola dimostrazione contro la sede, ma il portone… aveva tenuto duro e i tipografi avevano respinto il tentativo dei manifestanti di penetrare nella sala macchine. A Basilio Biucchi, che era stato il più fervente simpatizzante di quel regime, fu consigliato di cambiar mestiere (da economista di razza qual era si sarebbe affermato come docente universitario) e a Vittore Frigerio, il direttore, fu perdonato tutto per la sua notorietà di autore di romanzi popolari. Era stato Piero Beretta, incaricato della cronaca locale e dello sport, a mantenere vivi i contatti con la Lugano profonda, a cominciare dal Football Club…
Quale linea politica difendeva in quegli anni dell’immediato dopoguerra il «Corriere del Ticino»? Senza mancare di rispetto, credo si meritasse lo sberleffo di «Libera Stampa», che lo definiva «giornale dei baslottai» (Tacaa al baslott = avido, taccagno, da: Lessico dialettale della Svizzera italiana, vol.1, p. 246). Di Pierre Grellet, un autorevole giornalista romando che mandava da Berna un articolo la settimana, il Dizionario storico della Svizzera scrive che era «temuto cronista della vita politica svizzera e virulento antisocialista». Di politica cantonale e di economia si occupava Giancarlo Bianchi, un avvocato della piazza che si preparava a succedere a Frigerio quando questi avrebbe lasciato la direzione, ossia il 1. luglio 1958, dopo 46 anni di servizio. Ma appena quattro mesi dopo anche Giancarlo Bianchi morì, stroncato da un infarto.
L’onesta decennale direzione di Giovanni Regazzoni (1958-1968) avrebbe tenuto in caldo per altri dieci anni la buona coscienza dei luganesi. Il cambiamento partì perciò dalla parte della proprietà. Matilde Bonetti-Soldati doveva sentirsi meno vicina agli anziani consiglieri di cui si era circondato suo padre. Si fidava di Amilcare Berra, di pochi anni meno giovane di lei (era nato nel 1921), conosciuto alla Banca Popolare di Lugano di cui aveva assunto la direzione in attesa di traghettarla per intero all’UBS. Liberale di ascendenze familiari mazziniane, laureato in economica politica, Berra aveva esordito all’Amministrazione cantonale delle contribuzioni promovendo il sostegno popolare alla nuova legge tributaria approvata nel 1951 (il «Corriere» era contrario…). Contatto fu preso, e sarebbe stato decisivo, anche con Guido Locarnini, da poco approdato a Lugano come corrispondente della padronale «Corrispondenza politica svizzera».
Volendosi ammodernare il «Corriere», le scelte da fare si annunciavano pesanti. La confezione del giornale era sempre stata data in appalto a una tipografia esterna: ultimi titolari, i Grassi che stampavano anche «Gazzetta Ticinese». Il nodo da sciogliere era di quelli tosti: per esempio, il contratto con gli stampatori prevedeva un termine di disdetta di soli sei mesi. Le rotative, allora, si ordinavano con anni di anticipo! Ma ne fu trovata una d’occasione, e la sfida fu accettata.
La prospettiva dava a noi, giovani di negozio, molte speranze. Non per via della politica, o dell’economia. Noi soffrivamo di dover rincorrere i colleghi del «Giornale del Popolo» sulle notizie. L’hockey ormai si giocava di sera e i risultati il giornale concorrente li dava, con cronaca e foto, in tutto il Ticino la mattina dopo. Noi li si pareggiava con la seconda edizione, che però, come detto, raggiungeva i lettori solo poco prima di mezzogiorno e soltanto a Lugano e dintorni.
Il cambiamento si fece attendere fino al 1969 ma le novità furono di peso: un nuovo stabilimento in Corso Elvezia, la redazione sopra la tipografia, una rotativa nuovissima che consentiva l’andata in macchina fino a quasi mezzanotte, un nuovo formato, una nuova disposizione delle rubriche (la Cittadina «relegata» dietro gli Esteri, il Nazionale, il Cantone!), la ridistribuzione secondo competenze delle responsabilità tra i redattori.
Guido Locarnini
Nato nel 1919, «maturato» al liceo dei Benedettini di Ascona, Guido Locarnini (recentemente scomparso a 100 anni compiuti) era rimasto lontano dal Ticino per tutto il tempo dei suoi studi di lettere e di diritto. La guerra l’aveva costretto nel ’39 a lasciare Heidelberg, a Berna aveva conseguito il dottorato in germanistica, aveva fatto il militare, si era sposato e aveva lavorato per quasi quindici anni negli uffici della CPS. La domanda che ancora mi pongo, oggi, è la seguente: presero un abbaglio nel giudicarlo, Matilde Soldati e Amilcare Berra, oppure intuirono che quel ticinese dell’estero, per essere stato vicino alla parte più illuminata della borghesia svizzera, coltivava idee politiche ed economiche più avanti di vent’anni rispetto alla mentalità corrente?
D’altra parte, Matilde frequentava amicizie e circoli intellettuali della Milano bollente degli Anni Sessanta, Berra aveva sostenuto la riforma fiscale (il «Corriere» era contrario…), non era un banchiere e basta, avrebbe sostenuto il mecenatismo culturale e dato denaro alla nascente Università della Svizzera italiana… Insomma, a Locarnini venne affidato l’incarico di preparare il sorpasso del «Giornale del Popolo». E nel 1969 fu nominato direttore.
Nei rapporti con i redattori (ormai quasi una ventina) la Fondazione si mosse sempre su un piano di grande correttezza. Il personale era al beneficio di un piccolo fondo pensione già dagli anni di Frigerio. Il contratto collettivo, firmato nel 1974 a livello nazionale tra le associazioni degli editori e quelle dei giornalisti, al «Corriere» fu applicato subito e alla lettera, gli stipendi aggiornati sui nuovi minimi contrattuali. Si promosse pure la redazione di uno Statuto di redazione, in quanto previsto dal contratto. Su questo punto la Fondazione fece valere le sue prerogative: il testo finale si dimostrò infatti molto distante da quello elaborato in redazione. Ma anche i redattori sapevano stare ai patti, e la proprietà ebbe l’ultima parola. L’autore della versione definitiva era stato Brenno Galli (1910-1978), ex consigliere di Stato e consigliere nazionale del partito liberale radicale. A lui fu assegnato pure l’incarico di elaborare lo statuto della Società Editrice, delegata dalla Fondazione a gestire gli impianti tecnici.
Gli anni buoni
Il contatto tra redazione e proprietà era tenuto dal direttore. Solo per discutere cose che ci riguardavano personalmente noi redattori fummo qualche volta convocati a una seduta del Consiglio di fondazione. Dal 1966 il posto del defunto ambasciatore Agostino era stato assunto da suo fratello, Francisco A. Soldati, che veniva a Lugano dall’Argentina una o due volte l’anno per le sedute. Berra fu iscritto a Registro di commercio come sostituto di Matilde; sostituto di Francisco Soldati era Federico Guasti: un cognome «nuovo», di cui più avanti.
Che giudizio desse la proprietà della linea impressa al giornale da Guido Locarnini tra il 1969 e il 1982 non è possibile dire con la precisione che potremmo desiderare. Il direttore fu sempre con noi molto discreto, le sue carte sono rimaste private, i verbali delle sedute del Consiglio di fondazione non li ho letti. Ma è certo che molte nubi oscurassero talvolta i rapporti tra proprietà e giornalisti. Il «Corriere» era giornalmente sotto tiro da parte di «Libera Stampa» (che giunse a scrivere di una vipera che la presidente della Fondazione si scaldava in seno). Anche «Gazzetta Ticinese» era molto acre nei confronti del «Corriere». Ma il giornale tenne la barra dritta e la proprietà non smentì mai la redazione pur invitando a prudenza ed equilibrio. D’altra parte, la nave andava a gonfie vele, la tiratura lievitava ogni anno di qualche migliaio di copie e… la cena tradizionale prenatalizia si svolgeva sempre in un clima di compiaciuta unità.
A questi sostanzialmente buoni rapporti diede uno scossone l’incidente del 1980 (la candidatura di Mario Gallino alla vicedirezione, sottoposta secondo contratto alla consultazione di noi redattori, abortita a causa di un dottorato esibito e mai conseguito), che innescò una crisi di fiducia. Molti, fuori, ritennero che l’ora di un revirement ideologico fosse arrivata. Ma niente accadde di concreto: vi furono alcune dimissioni importanti, nessuna conseguenza ne patì il giornale.
Sergio Caratti (1932) – designato alla successione di Locarnini nell’autunno del 1981 ma in carica solo dalla fine dell’82, quando l’uscente fu ringraziato e pensionato – veniva da un’esperienza decennale al Dipartimento cantonale della Pubblica Educazione. Era un uomo dell’establishment ma di larghe vedute, intesseva ottimi rapporti con il mondo culturale italiano, apparteneva al partito liberale radicale ma si rendeva conto che al «Corriere» si praticava un’equidistanza intelligente. Di cambiamento della linea del giornale si parlò nei soliti circoli luganesi, ma non accadde nulla. Ma ripeto la mia convinzione: decisivo fu il fatto che quegli anni erano d’oro in tutti i sensi, il giornale aumentava ogni anno la tiratura e chiudeva i conti in attivo. E poiché non si distribuivano dividendi (per l’intui-zione del vecchio giudice!) si andava creando una riserva bene investita, che si sarebbe dimostrata utile quando, superata la svolta del secolo, sarebbero cominciati gli anni delle vacche magre.
I «milanesi»
Il «ramo argentino» fu zelante nel mantenere l’impegno di occuparsi del giornale. Due lutti lo funestarono: Francisco Soldati ucciso nel 1979 dai montoneros, estremisti di sinistra; suo figlio, pure di nome Francisco, deceduto per una caduta da cavallo nel 1991. Al posto loro fu designato Santiago Soldati (nato nel 1943), il quale pure avrebbe dimostrato volontà di tener fede all’impegno: ma la lontananza finì per rivelarsi un ostacolo troppo forte. Una soluzione che salvaguardasse il principio della pari gestione dei rappresentanti dei due gruppi famigliari fu trovata con i discendenti di una sorella minore dell’ambasciatore Agostino e perciò pronipote del fondatore: Noemi (1912-1992), andata sposa a un milanese: Alessandro Guasti. Pure per matrimonio (quello di Maria Pia, la prima figlia dei coniugi Guasti) entrò nell’eredità anche la famiglia Foglia. I Foglia erano banchieri, nel 1958 avevano creato a Lugano la Banca del Ceresio.
Alla svolta del centenario del giornale (1891-1991), senza dare segni di cedimento Matilde Soldati superava il mezzo secolo di presidenza. Il suo parere era sempre determinante. Fu lei a escludere ogni sanzione per un’intervista birichina pubblicata sul «Corriere» del 4 ottobre 2007, autore il vicedirettore e responsabile della redazione economica Alfonso Tuor, in cui si metteva in cattiva luce il banchiere Alberto Foglia sul problema dei subprimes. A un richiamo interno ci si limitò pure quando il giornale «bucò» la notizia dell’infarto che aveva stroncato il consigliere di Stato Giuseppe Buffi nel luglio del 2000. Ma senza chiasso, il pubblico non ne seppe niente.
Il salvataggio del GdP
Alla svolta del millennio si parlava ormai apertamente delle difficoltà del «Giornale del Popolo». Si diceva che stesse per essere venduto ai Salvioni di Bellinzona (già era stata loro ceduta la Tipografia «La Buona Stampa»). Avvicinata dal Vescovo Grampa, eletto da pochi giorni, Matilde Soldati si ricordò di aver detto una volta: «Io il Giornale del Popolo non lo lascerò cadere». Fu promossa la creazione di una società anonima in cui la Fondazione sarebbe entrata per il cinquanta per cento del capitale meno un’azione: l’esborso fu di sei milioni, la comproprietà lasciava le redazioni libere di continuare a fare il giornale che volevano.
Solo nel 2009 l’indistruttibile «Signora Matilde» avrebbe chiesto di poter lasciare la presidenza, delegando a titolare della rappresentanza del «ramo di Neggio» l’avvocato Fabio Soldati (1957), figlio di suo fratello Silvio, che già aveva assunto vari incarichi di responsabilità in azienda. Il cambiamento fu l’occasione per rielaborare la forma giuridica, aprendo le società dipendenti dalla Fondazione a nuove articolazioni. Bisognava tener conto delle acquisizioni (Teleticino, Radio 3iii, Mediamarketing). Ed è in quel frangente che un incarico di prestigio (con il titolo di «amministratore delegato») fu conferito a un giornalista italiano noto anche in Ticino – aveva fondato con Stephan Russ-Mohl l’Osservatorio europeo di giornalismo dell’USI: Marcello Foa (1963). Professionista d’esperienza, Foa al «Corriere» si dimostrò troppo giornalista per attenersi al rango di manager. Autore di due volumi intitolati Lo stregone della notizia, la sua inclinazione al complottismo emergeva in particolare nel blog che curiosamente continuava a tenere su «il Giornale» mentre era l’Ad del «Corriere». Fece discutere un suo falso scoop sui riservisti americani, pubblicato sul blog e ripreso, ma solo in poche righe, sul «Corriere». La sua nomina a presidente della Rai Radiotelevisione italiana, il 26 settembre del 2018, ha tolto le castagne dal fuoco.
Si era guardato con preoccupazione a un’altra designazione, al termine del mandato di Giancarlo Dillena che aveva tenuto dritta la barra per dieci anni, nel 2017: quella di Fabio Pontiggia (1958), entrato al giornale nel 1991, cui ora si apriva la porta della direzione. Pontiggia sul «Tages-Anzeiger» era stato accusato di essere il ghost-writer di Marina Masoni, quanto dire che era politicamente compromesso. Ma… con la grazia del posto tutto si aggiusta – avrebbe detto il mio vecchio curato – e Pontiggia si sarebbe dimostrato non solo un giornalista intelligente e documentato ma anche un buon custode dei valori che il giornale custodiva nel suo DNA. Si dice ora… che si stia specializzando anche come tour operator e che al timone starà ancora per poco: comunque sia, quando uscirà di scena potrebbe essere rimpianto.
Il giornale «nuovo»
Negli scorsi mesi ha suscitato perplessità non tanto la nuova grafica (ci si abitua a tutto con i giornali!) quanto la partizione della redazione con una sorta di vallo generazionale: da un lato i nativi digitali, dall’altro chi… era nato prima. Fioccano gli interrogativi. Che senso ha che a Pontiggia, cui è confermato il titolo di «direttore», sia stato affiancato un «direttore operativo» (Paride Pelli)? Il direttore responsabile non sarebbe operativo? E il direttore operativo non sarebbe responsabile? Alcune scelte fanno temere una minore attenzione per la qualità dei contenuti a profitto del bling bling publieditoriale.
Quest’anno il «Corriere» ha fatto notizia anche per il licenziamento di nove collaboratori, tra cui quattro redattori. Si trattava di una misura di risparmio, è stato assicurato. Con il rispetto dovuto a chi è stato toccato dalla misura, si può ammettere che quattro partenze sulla sessantina di giornalisti che oggi impiega il giornale, se non è un errore non è neppure uno scandalo (l’editore Wanner di Aarau ne ha «sacrificato» duecento concentrando in pochi anni una ventina di testate). D’altra parte, la Fondazione doveva frenare l’emorragia di disavanzi degli ultimi anni (da due a tre milioni l’anno) dovuta al drammatico calo della pubblicità. Al parziale risanamento contribuì, paradossalmente, il fallimento del «Giornale del Popolo», visto che la metà dei deficit del quotidiano cattolico gravava ogni anno sul gruppo.
In mani private
A questo punto non sarebbe illogico domandarsi se sia giusto che un giornale importante come il «Corriere» appartenga a un gruppo ristretto di persone che non deve rendere conto a nessuno. Si potrebbe rispondere che, in Svizzera, l’appartenenza della quasi totalità dei giornali a imprese di famiglia (i Ringier, i Bachmann, i Coninx, i von Graffenried, e pure i Soldati e i Salvioni…) ha quasi sempre dato buona prova. Spiace semmai la resistenza degli editori della Svizzera tedesca e del Ticino a consolidare la comunità di interessi che li unisce alle associazioni dei giornalisti sottoscrivendo un nuovo contratto collettivo per la Svizzera tedesca e il Ticino (dal 2004 non è più in vigore). La votazione popolare del 4 marzo 2018 ha dimostrato che al Paese serve un servizio pubblico radiotelevisivo efficiente. Ma un servizio pubblico lo svolgerà sempre e ancora la stampa in mani private, se rimarrà rappresentativa di quella varietà di lingue, culture e problemi in cui consiste la Svizzera: dove non esiste un centro che sia insieme politico, economico e sociale, dove la democrazia è da inventare ogni giorno e perciò non può fare a meno della partecipazione di una cittadinanza plurale formata e informata.