A Meride lascio il Museo dei fossili del Monte San Giorgio incamminandomi verso occidente, prima attraverso il nucleo, poi lungo la strada ai piedi della collina dominata dalla Chiesa di San Silvestro. È metà mattina, il sole ha iniziato da qualche tempo a scaldare i costoni dolomitici che, di fronte a me, montano al Poncione d’Arzo. In cinque minuti raggiungo la strada per Serpiano, svoltando poi in quella direzione. Pochi passi, il ponte e l’Oratorio di Visacco. Il piccolo tempio neoclassico oggi sembra lì a materializzare una data fondamentale per l’intera montagna. Risale, infatti, al 1863, anno in cui fu aperto il primo scavo paleontologico sul Monte San Giorgio, tre chilometri più a ovest, in Italia. L’artefice di quest’ultimo fu proprio un religioso, l’abate Antonio Stoppani. Altri cento metri ed ecco il sentiero che scende al Torrente Gaggiolo. Qui, il 13 aprile, la Fondazione del Monte San Giorgio, con il supporto del paleontologo Heinz Furrer e la collaborazione del Museo cantonale di storia naturale, ha inaugurato una terrazza panoramica che insieme arricchisce il percorso geopaleontologico e completa l’offerta del Museo dei fossili. Per il museo è un’aula nel bosco, rendendo così giustizia all’etimo di questa parola: luogo aperto, arioso.
Poggiata su un terrapieno in tronchi incrociati, la struttura si apre a balconata sulla Val Mara. La «valle amara, aspra, con un fianco esposto all’impeto del Gaggiolo e solo pochi balzi erbosi propizi al coltivo di vite, amarene e susine», come ci ricorda Giulio Cattaneo, custode della toponomastica di Meride. Ma la terrazza apre soprattutto lo sguardo sull’impressionante parete rocciosa che, sulla sponda opposta, si erge per oltre una ventina di metri. Strati di calcare dolcemente inclinati a sud rispecchiano oggi il verso della corrente, anche se, in realtà, è il flusso del tempo ad averli plasmati. Appartengono alla parte superiore del Calcare di Meride, la formazione che compone il pendio meridionale del Monte San Giorgio e dal 2003 è iscritta nel Patrimonio Unesco.
Nella sua tesi di dottorato del 1924, Alfred Senn battezzò quegli strati col nome di Kalkschieferzone, «zona degli scisti calcarei», poiché spesso particolarmente sottili, quasi fossero fragili fogli. Senn, tuttavia, non vi trovò alcuna di quelle «foto di famiglia» che oggi sappiamo così ben illustrare le pagine del Monte San Giorgio: i fossili. I primi fossili della Kalkschieferzone vennero infatti alla luce solo nel 1936 e grazie ad Albert Wirz, studente del paleontologo Bernhard Peyer, nel 1945 il toponimo Val Mara entrò di diritto nella letteratura paleontologica.
Gli scavi eseguiti negli ultimi trent’anni, prima dalle Università di Milano e Zurigo e poi dal Museo cantonale di storia naturale, hanno ricostruito il quadro ambientale espresso da questa pila di rocce che in Val Mara raggiunge uno spessore di 120 m. Un solo rettile marino, Lariosaurus valceresii, e un grosso pesce predatore del genere Saurichthys si dividevano il vertice di una catena alimentare composta da una dozzina di specie di pesci ossei, generalmente di piccole dimensioni, e da crostacei. Alcuni pesci sono noti esclusivamente da questa località e nomi come Sangiorgioichthys valmarensis appaiono a tale proposito evocativi; per la prima volta nella storia del Monte San Giorgio compaiono anche alcune forme di acqua dolce, lo stesso ambiente tipico di parte dei crostacei. Frammenti di antiche conifere parlano di una vicina terraferma, attestata anche dagli eccezionali ritrovamenti di insetti, alcuni addirittura fitofagi. Una laguna, periodicamente sommersa dalle piene dei fiumi, stava progressivamente rubando la scena al mare tropicale che per tre milioni di anni aveva dominato la regione.
Attraverso puntatori fissati al parapetto della terrazza lo sguardo abbraccia due finestre temporali di questo che rappresenta l’ultimo atto della storia del mare triassico del Monte San Giorgio: due serie di strati separati da circa 60’000 anni di età. Tra essi, uno spessore di due metri composto di ceneri vulcaniche racconta di periodiche eruzioni, con polveri che oscurarono a lungo il cielo prima di finire sepolte nel fondale marino. Un evento certo drammatico ma le cui conseguenze sarebbero analoghe a ritrovare uno di quei vertebrati con l’orologio al polso, fermatosi in quel preciso istante. Le ceneri contengono, infatti, minuscoli minerali cristallizzatisi durante l’eruzione. La loro recente datazione radiometrica ci dice che tutto ciò avveniva 239,51 milioni di anni fa. Frattanto, sul parapetto, due calchi di bronzo consentono di toccare con mano i resti fossili di un rettile e di un pesce. Dietro le spalle, quattro pannelli ben illustrati raccontano le tappe di questa storia, trasformando così la sosta nel bosco in una consapevole immersione nelle acque del tempo.