M. Chiara Ferrazzo Arcidiacono
Capo equipe psicologi e psicoterapeuti OSC
Coordinatrice Task force psicologica Covid19

Una cura per i curanti

Covid-19 - A colloquio con Maria Chiara Ferrazzo Arcidiacono, Capo equipe psicologi e psicoterapeuti OSC, che è la Coordinatrice della Task force psicologica allestita dal Cantone per sostenere i curanti confrontati con la presa a carico dei malati nelle strutture ticinesi
/ 11.05.2020
di Alessandro Zanoli

Signora Ferrazzo, in cosa consiste e da chi è formata la task force psicologica Covid-19?
È stata attivata dal Medico cantonale, dottor Giorgio Merlani, a partire da quando il virus ha cominciato a manifestarsi alle nostre latitudini e ancor prima che l’emergenza sanitaria assumesse le dimensioni che conosciamo, per fronteggiare questa situazione anche da un punto di vista psicologico. È composta da me, insieme a Stefano Barbero e Nicola Grignoli (psicologi OSC), in rappresentanza del DSS/OSC; da Marina Lang e Raffaello Giussani per il servizio di psicologia della Polizia Cantonale, che rappresentano lo Stato Maggiore di Condotta. Ci sono poi il Prof. Lorenzo Pezzoli, responsabile dell’Unità di psicologia applicata della SUPSI e i due presidenti delle associazioni di Categoria Psicologi e Psichiatri: Nicholas Sacchi (ATP) e Dr. Paolo Bausch (STPP).

La prima curiosità è capire come, dai reparti, sia possibile accedere a questo tipo di consulenza. Ci sono problemi anche logistici, di questi tempi, e anche di rispetto della privacy...
Andando con ordine: l’accesso per una consulenza nelle strutture viene richiesto dall’Ufficio del medico cantonale. Le stesse strutture hanno ricevuto l’informativa dell’esistenza della nostra cellula di intervento. A seguito della domanda, si procede a colloqui tramite piattaforme digitali (Teams) o telefonici. Nel caso fosse richiesto intervento in loco, nel rispetto delle disposizioni di sicurezza per prevenzione contagio, i nostri operatori svolgono i colloqui in una tendina esterna alla struttura, messa a disposizione dalla Protezione civile. L’istituzione di una hotline dedicata all’ascolto, dapprima dei sanitari, poi estesa alla popolazione dal 1. aprile 2020, mette a disposizione volontaria diversi specialisti (psicologi, psicoterapeuti e psichiatri) che operano su tutto il territorio cantonale. La garanzia della privacy degli accessi è regolamentata dal segreto professionale che vige nella nostra categoria; per quanto riguarda la sicurezza dei dati, sulla piattaforma Teams vigila il supporto dei nostri informatici (CSI).

A proposito del contatto telematico, così utilizzato in questi tempi. Si riesce a garantire uno spazio affettivo, in questa modalità relazionale?

Il contatto telematico è una «vecchia futura» modalità di organizzazione dei colloqui. I recenti dati su suolo elvetico ci parlano di un progresso del 30% circa di telelavoro dei nostri concittadini. La telemedicina è sicuramente un settore in espansione e adesso le contingenze ci stanno portando ad applicarla anche ai colloqui psicoterapeutici o psichiatrici. Questo sicuramente comporta un cambio di paradigma perché, da un lato si modifica tutta la parte di contatto e sintonizzazione sull’immediatezza con l’Altro (la mimica, gli sguardi e il corpo, in quanto sovente l’inquadratura è a mezzobusto), ma viene preservata la capacità di contatto relazionale e accoglienza delle tematiche dolorose. In questo periodo la grande difficoltà è il rischio di isolamento, il fatto che una persona si possa aprire al mondo attraverso il canale telematico diventa un’opportunità. Come tutte le cose, tuttavia è importante evitare i fondamentalismi, ovvero, una volta terminato il periodo di emergenza sanitaria, tale canale non dovrebbe restare l’unico a cui la persona si appoggia per accedere alla relazione. Infatti, è importante riflettere sul fatto che quando si è on-line, si può decidere anche di disconnettersi e sottrarsi ad alcuni contenuti dolorosi, cosa che in un colloquio classico non potrebbe accadere in maniera così netta.

Il sistema che avete strutturato ha qualche analogia con le tecniche di debriefing già utilizzate per i soccorritori? Come si aiuta una persona a "elaborare" questo tipo di disagio?

In situazioni di emergenza, come quella che stiamo vivendo, il sostegno psicologico è di fondamentale importanza, sia a livello di prevenzione e promozione della salute, sia come aspetto terapeutico. La letteratura scientifica ci informa sul fatto che una percentuale significativa di persone esposte ad eventi stressanti può sviluppare a breve-medio-lungo termine prolungate reazioni psicopatologiche che possono avere un impatto disabilitante di differenti livelli di gravità. Rispetto all’attuale emergenza sanitaria, possiamo attingere a riferimenti storici circa le pregresse pandemie (peste alcuni secoli orsono o più recentemente influenza Spagnola, Asiatica, Sars). L’aspetto che probabilmente le accomuna ai tempi moderni è il clima di profonda incertezza, che comporta uno stato psicologico di allarme continuativo, percepito come interno e/o esterno. La conseguenza è il farci sentire vulnerabili, impotenti e con un ridotto controllo sulle situazioni. È quindi fondamentale saper instaurare e promuovere un clima di sostegno e solidarietà. Le persone devono maturare la consapevolezza di non essere sole dinanzi alla precarietà degli eventi contingenti.

Il debriefing risulta una delle tecniche preventive maggiormente trattate nella letteratura sui traumi ed è sicuramente una buona base da cui partire. Un evento critico, come quello che stiamo vivendo attraverso l'attuale emergenza sanitaria, può essere definito come una circostanza che va oltre le normali esperienze e che mette a dura prova la capacità di adattamento di ognuno di noi, ma soprattutto anche la possibilità di saper fronteggiare e resistere in questa situazione. Gli eventi critici possono sopraffarci e stravolgere i nostri normali meccanismi di difesa. In questo senso possiamo essere pervasi da un senso di impotenza e fragilità che ci rimanda ai nostri limiti.  In parallelo al debriefing vi sono tecniche psicologiche che sono mirate ad accogliere, sostenere e reindirizzare le tensioni provocate da situazioni di stress cronico. La letteratura rispetto al trattamento del trauma ci porta evidenze circa alcune tecniche specifiche, quale l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), tra i più citati. Quest’ultimo è un particolare tipo di approccio terapeutico impiegato per il trattamento di traumi e stress psicologici di entità più o meno grave, ma deve essere svolto da professionisti specializzati e formati.

La presa a carico è di quelle «rapide», fondata su un intervento immediato e limitato, o nel contatto con le varie persone si possono prevedere un numero di incontri successivi, simili a un setting terapeutico psicologico a medio termine?
Innanzitutto bisogna dire che possono esserci diverse reazioni emozionali che riflettono altrettanti processi di reazione soggettiva. I tratti personologici, la storia famigliare di ognuno di noi, fattori di resilienza determinano la traiettoria della reazione dinanzi ad un evento stressogeno. La letteratura e l’esperienza clinica ci insegnano che gli individui che stanno vivendo l'emergenza sanitaria ritorneranno in buona parte ad uno stato di stabilizzazione e non presenteranno difficoltà, per altri invece si manifesteranno stati di sofferenza.  I tempi psicologici e della sofferenza psichica possono essere prolungati o differiti, ma quello che riteniamo importante è una rapida segnalazione, secondo il principio che prima ci accorgiamo che qualcosa non va e prima evitiamo che si instillino ferite maggiori o pseudo-indelebili.

L'approccio che abbiamo utilizzato per strutturare il nostro intervento si è basato quindi sulla psicologia dell'emergenza: un approccio il cui obiettivo è prevenire, superare il momento di fase acuta (pensiamo a come da un giorno all'altro abbiamo stravolto le nostre abitudini, ci siamo allontanati fisicamente dai nostri cari e abbiamo sacrificato parte della nostra quotidianità) per evitare lo sviluppo di un disturbo durante o dopo il trauma. Per questo motivo abbiamo realizzato una presa a carico su più livelli: al livello 1 abbiamo la Hotline: psicologi, psicoterapeuti e medici psichiatri sono a disposizione, in via gratuita, per offrire supporto emotivo a sanitari e popolazione per affrontare le emozioni di questo difficile momento. Quindi la persona si rivolge ad un professionista per una consulenza che sarà immediata (servizio attivo tutti i giorni dalle 7 alle 23). Qualora ci fosse la necessità di una presa a carico più strutturata, il professionista invita a rivolgersi ai servizi territoriali o a colleghi che lavorano nel privato. In un secondo livello abbiamo le supervisioni: un team di professionisti si mette a disposizione per accogliere le voci degli operatori impegnati in prima linea nelle strutture sanitarie, sia attraverso colloqui tramite piattaforme digitali, sia con interventi mirati entro le strutture. Al livello 3 si prende in considerazione l'informazione: sono state create e promosse varie iniziative informative circa gli aspetti psicologici in un momento di crisi, consultabili sulla pagina del Cantone www.ti.ch/coronavirus e su www.salutepsi.ch.


Ci sono spazi anche per la presa a carico dei problemi di équipe, o è un servizio che si rivolge solo al singolo utente?

Per quanto riguarda le equipe sociosanitarie, la nostra cellula viene attivata dall’Ufficio del medico cantonale. Offriamo sostegno e supervisione alle equipe attivamente impegnate con le persone malate. Sappiamo che gli operatori sanitari che si stanno interfacciando con persone affette da Coronavirus si sono confrontati con una malattia sconosciuta. Sono stati e sono tutt'ora sottoposti a fattori di stress specifici lavorando con il timore di rischio di contagio, orari prolungati, isolamento, impotenza, oppure confrontandosi con casi di decessi in breve successione. Un fardello emotivo assai importante da sostenere. 

Il nostro intervento si stabilisce in tre fasi. Una prima fase di presa di contatto e di ascolto del bisogno. La seconda fase, stabilita con l'accordo del responsabile della struttura e dei responsabili alle cure, prevede colloqui attraverso una piattaforma informativa (Teams), con l’idea che sia uno spazio di ascolto e supporto individuale, ma anche organizzativo. Viene promossa la possibilità di accogliere i bisogni psicologici del team della struttura e si propongono supervisioni in loco (terza fase) dove vengono organizzati piccoli gruppi.


Cosa ha di diverso, nelle vostre osservazioni, il quadro delle reazioni di disagio generato dal Covid-19?

Gli operatori sanitari, quando scelgono tale professione, sanno, più o meno consapevolmente che, oltre alla cura e alla guarigione dei loro pazienti, si dovranno purtroppo confrontare anche con la morte. Tale aspetto ci apre riflessioni sui nostri limiti, causando senso di fallimento, ingiustizia e colpa che possono essere proiettati su se stessi o verso il sistema. Il lavoro nei reparti di cura intensiva, per elezione, è maggiormente vicino al tema della morte perché, a livello probabilistico, gli operatori sanitari sono maggiormente esposti a tale esito nel loro lavoro. La relazione nel nostro intervento quali garanti della cura, anche quando è più strettamente fisica (persona in cura intensiva dipendente da ausili tecnologici), permane attiva e presente, ma ovviamente sbilanciata in quanto in queste situazioni il paziente non è sempre in grado di esplicitare i propri bisogni, che si accollano evidentemente sulle competenze professionali e umane degli operatori. Si aprono pertanto diversi scenari psichici di potenziale vulnerabilità, che possono portare l’operatore a rivivere su se stesso i timori e l’incertezza, anche a livello di vita privata, con sintomi quali ansia, depressione, difficoltà nel sonno, utilizzo di sostanze psicoattive.

Nel caso dell’epidemia di Covid-19 la medicina intensiva è stata riorganizzata in una dimensione di urgenza portando gli operatori sanitari a operare in un contesto inabituale. Molti sono stati trasferiti da altri reparti e hanno assunto ruoli diversi e con turnistiche elevate ed estese. Questa riorganizzazione ospedaliera ha richiesto grandi capacità di adattamento, creato solidarietà e nuove competenze, ma anche rappresentato un fattore di stress psicofisico. Negli ospedali dedicati al covid un’adeguato servizio di assistenza diretta è stato organizzato sul piano psicologico. Un’altra particolarità delle terapie intensive in contesto epidemico è il ruolo di supporto al paziente svolto primariamente dagli operatori sanitari che si sono occupati anche essenzialmente della comunicazione con le famiglie confinate fuori dall’ospedale. L’assunzione in parallelo di un ruolo tecnico ed emotivo è una caratteristica delle terapie intensive, ma si è rivelata particolarmente preziosa nel contesto epidemico attuale.

Esprimersi sulle differenze dei vissuti provati dagli operatori ospedalieri che in queste settimane sono confrontati con la cura dei pazienti affetti da Covid-19 è probabilmente prematuro in quanto, dal nostro osservatorio è emersa l’urgenza dell’operatività e del mantenimento di routine lavorative. Si sono rilevate infatti poche richieste specifiche e tale dato era in qualche modo prevedibile, in accordo anche con le linee guida internazionali. Tale dato può essere interpretato secondo vari fattori:lo stato di emergenza acuto; la gestione efficace dell’emergenza da parte del sistema sanitario, la presenza di risorse interne (area di supporto eoc, iniziative individuali) e la necessità di rispondere a bisogni primari e messa in atto di difese mentali che non richiedono nell’urgenza intervento psicologico. Tuttavia possiamo ipotizzare un aumento di richieste specifiche, sia rispetto a una seconda fase della diffusione epidemica, sia in concomitanza di un calo della pressione sugli operatori sanitari. Una riflessione analoga potrebbe essere trasposta sugli operatori della Case per Anziani che, sebbene abituati e formati ad accompagnare i loro ospiti nell’ultima parte di vita, in relazione al Covid-19 sono stati testimoni di un importante aumento dei decessi in un breve lasso di tempo. Ovviamente questo discorso non è generalizzabile a tutte le strutture territoriali, ma ha aperto interrogativi circa fragilità psichiche e organizzative negli operatori e su tale aspetto abbiamo cercato di dare il nostro contributo in termini di supporto e sostegno emotivo.

I risultati delle vostre osservazioni e dei vostri colloqui confluisce in qualche progetto di ricerca o viene condiviso, magari con analoghi gruppi di lavoro attivi in altre regioni?
In tale fase anche noi abbiamo risentito della pressione dell’operatività e non sono stati elaborati progetti di ricerca specifici. Tale argomento è stato tuttavia dibattuto all’interno del nostro gruppo di lavoro e si sono ipotizzate alcune riflessioni che dovranno essere ulteriormente approfondite. È rimasto invece attivo un costruttivo dialogo e scambio di informazioni con i colleghi territoriali attigui al Canton Ticino, nello specifico confronti con professionisti attivi nel Canton VD, con la Società di Psicologia della Salute, con il Servizio di psichiatria di liaison del CHUV, confronti con la realtà della Lombardia, convegni e linee guida dell’OMS e raccolta informale di dati locali.

 

C'è qualcosa che personalmente avrebbe voglia di condividere con noi, qualcosa che l'ha particolarmente colpita, in questo periodo e che le sembra significativo, per fare in modo che i lettori si immedesimino nel ruolo di chi ascolta questi problemi?
In questo periodo ho in mente tante immagini e tante parole delle persone che ho incontrato. L’aspetto più evidente, è sicuramente quello della fatica, della sofferenza e della fragilità che ha amplificato una serie di vissuti spiacevoli portando tante persone a non più riconoscersi, rispecchiate nei loro limiti. Tuttavia, la specificità della nostra professione è quella di ricercare i fiori nel deserto, se mi passa l’immagine e quindi ci dovremmo tutti riorientare anche verso altri aspetti che attualmente ci sembrano messi in ombra. In concreto mi riferisco alle diverse iniziative di solidarietà che si sono manifestate e concretizzate a più livelli all’interno della nostra comunità. La solidarietà ha permesso di moderare gli atteggiamenti individualistici/narcisistici in cui ci eravamo rintanati e ha ingenerato diversi percorsi interiori di cambiamento di credenze e di abitudini, al momento personali, ma l’auspicio è che possano essere promossi all’interno della collettività. Questo processo di riflessione individuale, di cui rilevo i germogli, è nutrito anche dalla speranza e per me è assolutamente importante che questo valore permanga nei cuori di tutti.