«Cinque persone entrano in una stanza in cui ci sono solo quattro sedie. Chi si siede e dove? Possono fare il “gioco delle sedie”. Questo è un contratto spaziale. Oppure possono allineare le sedie per formare una panchina che le possa accomodare tutte. Questo è un altro tipo di contratto spaziale...». È uno degli esempi che Hashim Sarkis, il curatore libanese-americano di questa Biennale ha proposto per illustrare come la politica stabilisce i processi della vita collettiva, ma poi sono gli spazi nei quali si svolge la stessa vita collettiva che determinano sostanzialmente i suoi effetti.
How will we live together? (Come vivremo insieme?) è il tema dell’esposizione veneziana, il cui allestimento è stato più volte rimandato a causa della pandemia, fino all’inaugurazione avvenuta lo scorso 22 maggio, un anno dopo la prevista scadenza biennale.
How will we live together? è un tema molto ampio e viene declinato dallo stesso Sarkis in numerose questioni, che sono quelle che animano i movimenti sociali in tutto il mondo: dalla crisi climatica e ambientale ai massicci spostamenti di popolazione, dalle crescenti disuguaglianze economiche, sociali e razziali alle tecnologie per realizzare alloggi collettivi innovativi, dalla crisi delle città globali alla distribuzione più equa delle risorse. Mille complesse problematiche, di natura soprattutto sociale e politica, per affrontare le quali Sarkis ha invitato architetti di tutto il mondo a ricercare soluzioni e modi alternativi di vivere insieme. Sarkis sostiene che «non possiamo più aspettare che siano i politici a proporre un percorso verso un futuro migliore». L’invito a sostituire la politica è stato accolto dagli ospiti con riflessioni e installazioni comprensibili perlopiù previa lettura di lunghi e faticosi testi esplicativi. In generale, abbiamo visto molte ricerche e poca architettura. Molti degli invitati hanno presentato visioni impegnate sul futuro del mondo, difficili da leggere dal grande pubblico, perché non interpretate e tradotte con gli strumenti propri della disciplina architettonica, cioè con progetti di spazi e di forme.
Come è successo anche in passato, quando il tema proposto dal curatore è poco circostanziato sono i padiglioni nazionali, con i loro temi, a caratterizzare l’esposizione. La posticipazione dell’inaugurazione ha avuto effetti anche sui contenuti dei padiglioni e alcuni di essi sono rimasti chiusi. Il padiglione della Germania ha aperto in modo provocatorio: i quattro grandi spazi nei quali è articolato sono completamente vuoti e sul muro di fondo di ognuno è dipinto, in grande formato, un QR Code, attraverso il quale lo smartphone personale accede ai contenuti del padiglione.
A volte il ritardo ha anche prodotto effetti positivi, consentendo più tempo per la progettazione e mutamenti di rotta in corsa. È il caso del padiglione svizzero, curato dai giovani architetti ginevrini Mounir Ayoub e Vanessa Lacaille con Fabrice Aragno e Pierre Szczepski e dedicato ai limiti dei territori (Orae – Experiences on the Border), un tema cruciale per un paese confinante con tanti e diversi popoli e culture. Accompagnato da Mounir Ayoub, chi scrive ha visitato la raccolta di modelli ospitati nel padiglione e costruiti dalla squadra di curatori insieme agli abitanti di villaggi e città di frontiera durante un lungo viaggio di ascolto. Dal Grüne Grenze alla frontiera di Ginevra con la Francia, a Chiasso, la mappa complessa e molto interessante dei sentimenti e delle esperienze spaziali – dirette più ad unire che a dividere – è stata indagata senza preconcetti e rappresentata attraverso modelli elementari, a volte infantili, ed eloquenti.
Il padiglione USA è il più efficace, per la secca sintesi del tema scelto: le case in legno costruite con il sistema chiamato balloon frame, che sono la quasi totalità delle abitazioni, sia povere che ricche, nei villaggi e nelle immense periferie delle città americane. La materializzazione del tema è altrettanto chiara e diretta, con modelli e fotografie e, soprattutto, con l’allestimento di una struttura lignea alta quattro piani e praticabile dal pubblico, che chiude lo spazio antistante l’edificio realizzando una corte. Un’invenzione spaziale fortemente attrattiva, che trasforma in modo significativo la scala del paesaggio dei Giardini.
Il padiglione della Danimarca offre invece ai visitatori affaticati l’occasione per una sosta rigenerativa. All’interno, un sistema di passerelle di legno consente di transitare attraversando un ruscello che scorre sul pavimento dei locali, alimentato dall’acqua piovana convogliata dalla copertura. Si può bere una tisana prodotta con l’acqua recuperata e aromatizzata con erbe coltivate in contenitori allestiti lungo il perimetro esterno del padiglione. Una dimostrazione didattica di sostenibilità circolare elementare.
Insieme a quelli del Cile, dell’Ungheria, della Polonia, dei paesi scandinavi e della Francia, il padiglione del Belgio è uno dei più «architettonici». I modelli colorati e a grande scala di progetti di giovani architetti sono stati collocati uno di fianco all’altro, a formare cortine cittadine. L’effetto spettacolare e inaspettato – in quanto si tratta di progetti pensati per altri specifici contesti – mette il visitatore nella condizione di apprezzare il paesaggio della densità urbana.
Il padiglione del Portogallo, che tradizionalmente è allestito fuori dai recinti della Biennale (a palazzo Giustinian Lolin) è dedicato anch’esso a progetti di architettura. In conflict è il tema della mostra, che risponde al quesito How will we live together? prendendo atto che i processi insediativi di una certa dimensione sono sempre oggetto di conflitto sociale oltre che ambientale. I progetti sono presentati con un allestimento che fornisce anche, in video, le testimonianze e i dialoghi dei testimoni del conflitto. È un salutare bagno nella realtà, che insegna la misura dell’essenza trasformativa dell’architettura e del suo valore civile, e che fa luce sulla condizione professionale perlopiù caratterizzata, in molti paesi, dalla tendenza ad emarginare la cultura architettonica dai processi di trasformazione del territorio.
L’assenza quasi totale degli architetti più noti internazionalmente ha liberato molto spazio per i più giovani e per i paesi poveri, anche se si tratta di un’assenza che contribuisce a ridurre l’attrattiva per il grande pubblico. È proprio il «grande pubblico» il problema critico irrisolto di questa Biennale ordinata da Hashim Sarkis, nel senso che la comunicazione rivolta ai non addetti ai lavori non sortisce l’effetto desiderato, e quindi l’esposizione vede ridursi il suo ruolo culturale.
A Rafael Moneo, al quale è stato conferito il Leone d’Oro alla carriera, è stata dedicata una piccola ma eloquente mostra, allestita nello spazio dell’ex libreria progettato da James Stirling. A Lina Bo Bardi, pressocchè sconosciuta al grande pubblico, alla quale è stato conferito il Leone d’Oro alla memoria, non è stato purtroppo dedicato alcuno spazio.