«Come possiamo parlare di noi e delle cose che ci stanno a cuore attraverso la fotografia?». Così recita il volantino di Senza Parole – Ritratti e particolari, esposizione a cura della classe P2 del Pretirocinio di Integrazione (PTI) di Trevano. Una mostra visitabile al Centro professionale sociosanitario medico-tecnico di Lugano.
Mi hanno colpito queste immagini. Sono ritratti a mezza figura in bianco e nero, ogni protagonista si esprime con un gesto forte, diverso. Mi hanno colpito anche i ragazzi che fieramente le appendevano ai muri e che ci invitavano a vedere la mostra attraverso un video di presentazione. Ho quindi deciso di andare a incontrarli, insieme a Ricardo Torres, che insegna loro al laboratorio di Comunicazione Audiovisiva e li ha guidati nella creazione della mostra.
Il Pretirocinio di Integrazione è una delle misure gestite dall’Istituto della transizione e del sostegno del DECS. L’obiettivo, oltre all’apprendimento della lingua italiana, è favorire l’inserimento sociale e professionale di ragazzi che sono arrivati tardivamente in Svizzera e hanno superato l’età dell’obbligo scolare. Hanno tra i 16 e i 18 anni all’incirca, non conoscono la nostra lingua e, a volte, non sanno leggere e scrivere nel loro idioma d’origine. Ci sono ragazze e ragazzi che arrivano da altri Paesi europei, ma anche giovani richiedenti l’asilo e rifugiati. Il Pretirocinio è quindi un’ottima occasione di integrazione, a livello comunicativo e professionale, con l’avvicinamento dei ragazzi a un apprendistato dopo un anno di scuola a tempo pieno.
I ragazzi della classe P2 a fine anno hanno imparato l’italiano sufficientemente bene per potersi esprimere sul loro lavoro. Uscirò dalla loro classe con la sensazione di aver ricevuto ben più di un’intervista.
La docente di Italiano Livia Cairoli mi accoglie, i ragazzi mi aspettavano, si sono preparati, hanno le copie delle immagini che ritraggono i loro gesti con sé e hanno scritto alcune frasi. Inizialmente intimiditi, a uno a uno si aprono poi nel raccontarmi quest’avventura, che senza parafrasare riporto qui.
Aref prende per primo la parola: «Siamo andati ad attaccare le foto in un’altra scuola: è interessante il fatto che qualcun’altro le veda! Non dovevamo parlare, ma decidere un gesto. Il mio è questo, il cuore: l’amore. Io amo la mia famiglia, mi mancano tanto, non li vedo da due anni». La foto lo ritrae con un sorriso che scoppia dietro a quel cuore abbozzato con pollici e indici. Poi si fa coraggio Mujtaba, che mi racconta: «Vengo dall’Afghanistan ho 17 anni. Quest’anno abbiamo studiato tante cose, tra le quali come realizzare le fotografie. Questa rappresenta per me la gentilezza. Questo perché è importante per la vita. Se non usiamo la gentilezza non possiamo trovare degli amici. È importantissimo per noi». Un gesto gentile accompagna questa voce che non è da meno, mentre cede la parola a Abdi: «Ti spiego il mio messaggio senza parole: ho fatto così, sfioro il cervello con le dita. Questo significa che bisogna pensare molto, usarlo! Perché ci sono persone che non lo usano, che crescono e basta, mentre è la parte del corpo più importante. Le foto ce le siamo fatte tra noi, avevamo la macchina fotografica e Ricardo ci ha insegnato a usarla».
Continua Jahanzeb: «Ciao, anche io vengo dall’Afghanistan. Il mio gesto significa rispetto. Tutte le persone, bambini, donne, anziani, lo meritano. La mano sopra il cuore. Questo nel mio paese significa anche ciao. Sono molto contento di questa foto». Anche Jamie è soddisfatto: «Abbiamo lavorato all’esterno, con la luce bella e quella meno bella. Abbiamo imparato cosa significano espressioni come figura intera, primo piano, piano americano. Questo gesto, il pugno sul cuore, significa “Sto bene!” Quando incontri i tuoi amici, tu dici così: “sto bene, niente male”. Questo nel mio paese, qui non so cosa voglia dire». Chissà che significa qui, intanto noto che il gesto che propone la fotografia di Henok è abbastanza univoco: «È il saluto militare! Vengo dall’Eritrea, sono qui dal 2019, e sono contento, mi piace qui». Un altro saluto, che per tutto lo scorso anno abbiamo integrato anche noi, è quello che mi propone l’alunna Karthika: «Arrivo dallo Sri Lanka, e nel mio paese le mani congiunte così, in forma quasi di preghiera, significano buongiorno, salute. Volevo far conoscere come si saluta da noi».
Mekdes mi racconta poi: «Io sono etiope, anche questo è un saluto, ma è il mio personale, un bacio! Di questo lavoro mi è piaciuto posare, più che fare le fotografie».
Finalmente arriva il turno di Louay, da un po’ stava preparando il suo intervento, sono curiosa di vedere la sua immagine e sentire il suo commento: «Io vengo dalla Siria. Mi piace studiare, imparo l’italiano! Propongo questo gesto che significa “quando ho bisogno di Dio”. Lo indico. Quando ho bisogno di qualcosa prego Dio che mi aiuti ad averlo. Questa foto mi piace, è un gesto che faccio spesso, anche se di solito con una sola mano, qui è con due ma per ragioni artistiche. Dio è solo uno!».
«Quando siamo arrivati qui non sapevamo come fare le foto, io le facevo come chiunque, con il telefonino – mi racconta poi Arash, che ha 18 anni ed è afgano – Non pensavo di dover stare attento all’inquadratura, alla posizione da cui prendere l’immagine, per esempio. Il gioco era il gesto, e il mio è la furbizia. Nella vita dobbiamo essere furbi altrimenti prendiamo dei colpi, o ci capitano cose brutte. Noi abitiamo in una situazione, dove stanno persone buone e cattive, e bisogna essere furbi. Un pollice sulla guancia, così».
Non per forza i gesti devono però raccontare qualcosa del proprio passato o della propria personalità, Rojhat spontaneamente mi racconta: «Questo l’ho visto tante volte su Instagram, è una specie di saluto! Credo che sia importante ricambiare quando qualcuno ti saluta. Io ho 18 anni vengo dalla Turchia».
Assistere a una lezione con questi ragazzi, ascoltare le loro storie di avvicinamento all’italiano e della loro vita qui, e osservare la facilità con la quale ora comunicano tra loro, con gesti e parole, e il profondo rispetto che nutrono per i propri insegnanti, è stato emozionante.
C’è chi ci ha messo un mese a imparare «buon appetito», e poi, quando mi ha raccontato come lo diceva nella propria lingua, mi sono detta che io ce ne avrei messi tre a pronunciarlo correttamente! C’è chi mi racconta come la prima volta che ha voluto comprare la lisciva per il bucato in un negozio ha ricevuto dello shampoo, perché nella propria lingua si diceva così. E poi ci sono gli allora, i quindi, avverbi che usiamo in continuazione senza accorgerci che, per chi ci ascolta, sono difficili da identificare.
Certo, io arrivo a fine anno, la docente Livia Cairoli mi racconta che non è sempre così facile: «All’inizio i ragazzi devono poter contare su una persona affidabile, altrimenti si chiudono. Soprattutto devono essere ascoltati. Quello che per noi è scontato non lo è per forza anche per loro». Livia non mi parla ovviamente solo dell’italiano. «Possono sorgere molti problemi. Ma devo dire che sono ottimi ragazzi, veramente bravi!», racconta mentre mi fa capire come il mettere dei limiti iniziali l’abbia resa a volte quella figura materna che a loro manca.
Il fratello maggiore sembrano averlo hanno trovato in Ricardo Torres, che di questo lavoro ama innanzitutto trasmettere la sua passione per la fotografia: «Questi ragazzi mi sorprendono sempre, con dei dettagli, con la loro spontaneità. Loro sono felici di essere a scuola, disposti a cogliere l’opportunità e valorizzano il nostro lavoro. La cosa più bella che ti può capitare è di avere il mondo in una classe, cinque o sei lingue, tre continenti, è prezioso. E fargli capire che con le immagini possono andare ancora più lontano».
La mostra Senza Parole è esposta nei corridoi del Centro professionale sociosanitario medico-tecnico in via Ronchetto 14 a Lugano sino a metà agosto.